Violenza sulle donne e matrimonio riparatore: uno sguardo sulle legislazioni dei secoli passati
SOMMARIO
1. La legislazione di Augusto in tema di relazioni sessuali illecite perché fuori del matrimonio (stuprum/adulterium). La mancata previsione di una relazione sessuale ottenuta con la forza (stuprum per vim illatum) e la sua graduale assimilabilità al crimine di rapimento di donne (raptus) secondo la giurisprudenza del II-III secolo. – 2. La disciplina del raptus nella legislazione anteriore a Costantino. – 3.
Il crimine di raptus nella costituzione di Costantino del 320 e la sua configurazione come reato bilaterale: la severità delle pene e il divieto del matrimonio riparatore. – 4. Il crimine di raptus nella legislazione di Giustiniano e la sua configurazione come reato unilaterale: la severità delle pene, forme di risarcimento a favore delle donne vittime di rapimento e conferma dell’abolizione del matrimonio riparatore – 5. La morte di Giustiniano e l’invasione dell’Italia da parte dei longobardi: la violenza sulle donne nelle legislazioni barbariche, in quella carolingia, nelle disposizioni canoniche, negli statuti comunali e in particolare in quello di Roma. – 6. I normanni e la legislazione a tutela delle donne di Ruggero II e di Guglielmo II d’Altavilla: le Assise di Ariano. – 7. Federico II recepisce la legislazione normanna e a sua volta la amplia. – 7/a. Federico abolisce l’istituto del duello praticato per la definizione dei processi di violenza sulle donne e disciplina il processo indiziario decretando la pena di morte a carico dei colpevoli. – 7/b. Federico sanziona con la pena capitale anche il rapimento di donne e abolisce il matrimonio riparatore riportandosi alle costituzioni di Costantino e di Giustiniano. – 7/c. Federico conferma la pena di morte a carico dei violentatori di prostitute. – 7/d. Federico sanziona il comportamento omissivo tenuto da coloro che non soccorrono una donna che invoca aiuto mentre sta per subire una violenza. 7/e. Federico sanziona con la pena capitale la donna che denuncia falsamente un uomo di crimini sessuali in suo danno e stabilisce il differimento dell’esecuzione della condannata gravida fino a 40 gg. dal parto. – 7/f. Federico istituisce il “gratuito patrocinio” a favore degli orfani, vedove e persone indigenti, ampliando le agevolazioni disposte a suo tempo da Costantino. – 7/g. Federico e la tutela della prole. – 8. In sintesi, Federico considera i crimini di ratto e di violenza sessuale reati contro la persona. – 9. Eleonora d’Arborea disciplina il matrimonio riparatore riconoscendo alla donna la piena libertà di rifiutarlo. – 10. Il matrimonio riparatore nelle disposizioni del Concilio di Trento e il suo rapporto con il processo penale secondo Prospero Farinacci. – 11. La legislazione preunitaria del XIX secolo degli Stati italiani in tema di violenza sulle donne nei codici penali del Regno delle Due Sicilie, del Ducato di Parma e Guastalla, dello Stato pontificio, del Regno Lombardo-Veneto, del Granducato di Toscana, del Ducato di Modena e Reggio, del Regno di Sardegna. - 12. L’arretramento “maschilista” assunto dopo l’unità d’Italia dal codice penale Zanardelli (1889) e dal codice Rocco (1930).
1. La legislazione di Augusto in tema di relazioni sessuali illecite perché fuori del matrimonio (stuprum/adulterium). La mancata previsione di una relazione sessuale ottenuta con la forza (stuprum per vim illatum) e la sua graduale assimilabilità al crimine di rapimento di donne (raptus) secondo la giurisprudenza del II-III secolo.
Augusto, allo scopo di moralizzare la rilassatezza dei costumi, stabilì che andavano represse e sanzionate tutte quelle condotte sessuali che ponevano in discussione l’ordine delle famiglie.
Così, oltre ad incoraggiare i matrimoni e a sanzionare i celibi, fece approvare tra il 16 e il 18 d.C. la lex Julia de adulteriis coercendis (legge Giulia sulla repressione degli adulterii) per mezzo della quale vietò ogni relazione sessuale tra persone libere intercorsa fuori dal matrimonio, sanzionando pesantemente l’adulterio: la relazione fuori dal matrimonio era chiamata indifferentemente stuprum o anche adulterium (stuprum significava soprattutto onta, disonore).
Ovviamente c’erano varie categorie di donne che non avendo un onore da tutelare potevano essere partners degli uomini senza che né esse né questi subissero alcuna conseguenza: si tratta delle feminae probrosae (donne svergognate): schiave, donne di teatro, meretrici, donne divorziate, ostesse.
Dunque dai testi giuridici e letterari a noi pervenuti il termine stuprum, al pari di adulterium, significava relazione illecita ma non faceva alcun riferimento alla coartazione della volontà della donna mediante minacce o violenza.
La legge Giulia sulla repressione degli adulterii sanzionò quindi le relazioni illecite intercorse tra persone libere fuori del matrimonio e considerò realizzato tout court il reato di adulterio ogni qual volta fossero stati accertati uno o più rapporti sessuali; inoltre, sanzionò pesantemente il favoreggiamento e lo sfruttamento delle prestazioni sessuali della donna quando a trarne un lucro era proprio il marito.
Ma la legge Giulia, proprio perché dava esclusiva rilevanza al dato oggettivo della relazione illecita, non regolò il caso in cui il rapporto sessuale illecito (perché avvenuto fuori del matrimonio) fosse avvenuto mediante coartazione della volontà della donna; bastava che esso fosse avvenuto per legittimare la presentazione di una accusa di adulterio.
Poiché presso i romani era in vigore il sistema processuale di tipo accusatorio e quindi non esisteva un organo giudiziario pubblico che procedesse d’ufficio (assimilabile all’odierno pubblico ministero), erano legittimati a presentare tale atto di accusa (in un certo senso assimilabile alla querela) il padre della donna (non sposata) o il marito di lei: essi - nel rispetto di determinate condizioni - potevano quindi perseguire prima l’adultero e poi la donna (o viceversa) ma mai insieme perché il diritto romano non prevedeva un processo simultaneo a carico di più persone per lo stesso reato.
Conseguentemente, la donna violentata avrebbe potuto reclamare di essere stata vittima e non compartecipe del reato solo dopo l’instaurazione di un processo per adulterio, sostenendo che la relazione sessuale era avvenuta contro la sua volontà: in altre parole, solo nell’ambito di un processo per adulterio e non prima la donna era ammessa a dimostrare di essere stata vittima e non compartecipe del reato e quindi di essere incolpevole.
I numerosi casi giudiziari di violenza sessuale portati all’attenzione della cancelleria imperiale condussero i più illuminati giuristi dell’età dei Severi (II-III secolo d.C.) - tra cui vanno annoverati Marciano e Ulpiano - a dubitare che fosse applicabile la legge Giulia sulla repressione degli adulterii e definirono la relazione sessuale ottenuta con l’uso della forza come stuprum per vim illatum. Va detto per inciso che l’importanza dei responsi dei giuristi risiede nel fatto che ai migliori di essi gli imperatori romani avevano concesso di decidere in ultima istanza in loro vece su questioni di diritto pervenute nelle loro cancellerie, attribuendo alle loro decisioni forza di legge (quibus permissum est iura condere: ai quali è concesso di creare diritto, come afferma Gaio nelle Institutiones I, 7).
Pertanto, Marciano e Ulpiano evidenziarono una lacuna nella predetta legge e subito dopo si posero il problema di come colmarla esplorando se nell’ordinamento giuridico romano la violenza sessuale potesse essere assimilata a fattispecie criminali analoghe che avessero in comune la violenza e che fossero sanzionate.
In altre parole, non si accontentarono di valutare la violenza subita dalla donna come fattore per escludere la sua coscienza e volontà nella relazione illecita, ma vollero configurarla proprio come elemento costitutivo di un autonomo e diverso reato caratterizzato dall’uso della violenza che presentasse analogie con un altro reato ad essa assimilabile.
Nel tentativo di colmare la predetta lacuna della legge Giulia sulla repressione degli adulterii, passarono ad esaminare la lex Julia de vi publica (legge Giulia sulla violenza pubblica, fatta approvare da Ottaviano Augusto nel 17 d.C.) che puniva quei reati che venivano commessi con l’uso della forza (quali ad es. la detenzione di armi, la costituzione di bande armate, il saccheggio in occasione di incendio) e che fu estesa in un secondo momento al ratto di donne e fanciulli: quindi, si soffermarono su quest’ultimo reato che presentava profonde analogie con la violenza carnale.
Infatti – è il ragionamento seguito da Marciano e Ulpiano – colui che rapisce una donna nubile o sposata il più delle volte lo fa per intrattenere con essa rapporti sessuali o per libidine o a fine di matrimonio: quindi il ratto è in un certo senso propedeutico alla volenza sessuale.
E quindi – conclusero i predetti giuristi - è senz’altro possibile affermare che il ratto è analogo per gravità e per effetti alla violenza sessuale perpetrata nei confronti della stessa donna, visto che subisce in entrambi i casi un’offesa alla propria persona e alla propria pudicizia.
In merito all’analogia va detto che nel diritto romano era legittimo farne ricorso nelle ipotesi in cui un fatto non era regolato espressamente da una legge, ma era assimilabile per struttura e finalità ad un altro fatto che invece era legislativamente disciplinato; in tale ipotesi si considerava applicabile questa legge al fatto non previsto allo stesso modo del fatto espressamente previsto: nel caso di specie, si trattava di attribuire alla violenza sessuale lo stesso trattamento del ratto per la stretta affinità tra i due reati in quanto entrambi perseguivano lo stesso scopo.
Il libro XXXXVIII, titolo VI del Digesto di Giustiniano (redatto nel VI secolo d.C.) fotografa efficacemente tale mutamento giurisprudenziale in quanto contiene i responsi di Ulpiano (1) e Marciano (2) che avevano dunque ritenuto applicabile la legge Giulia sulla violenza pubblica alla violenza sessuale.
Quale era la pena comminata ai violentatori?
A tale domanda risponde sempre Ulpiano (3) che nel afferma testualmente che il condannato doveva subire l’interdizione dall’acqua e dal fuoco.
Cos’era l’interdizione dall’acqua e dal fuoco?
Per rispondere a questa domanda va ricordato che Polibio (Storie, 6, 14, 7-8) e Tito Livio (Ab Urbe condita (25, 4, 9), unitamente ad altri storici, riferiscono che già dal tempo della repubblica era prassi consentire all’imputato in procinto di essere condannato alla pena capitale di abbandonare Roma per rifugiarsi in un’altra città che avesse riconosciuto tale diritto in base a pregressi accordi con l’Urbe. L’esilio volontario era accompagnato dall’interdictio aqua et igni (interdizione dall’acqua e dal fuoco) che sanciva la perdita della cittadinanza, la confisca dei beni e il divieto di rientrare nel territorio urbano sotto la comminatoria della pena di morte: l’espressione interdictio aqua et igni sta infatti a significare che era vietato fornire l’acqua e il fuoco alla persona che optava per l’esilio in quanto aveva perso la cittadinanza e quindi non apparteneva più alla comunità cittadina.
Negli ultimi anni della repubblica l’esilio si trasformò da strumento per sfuggire all’esecuzione della pena in una vera e propria pena, tanto che per poena capitalis (pena capitale) si intese non solo quella di morte ma anche l’esilio accompagnato dall’interdizione dall’acqua e dal fuoco: ciò in quanto alcune leggi comminarono l’exilium (esilio) con perdita di cittadinanza e la legge Giulia sulla violenza pubblica fu una di esse.
Tuttavia, nei secoli successivi il trattamento sanzionatorio mutò come attesta ad esempio il giurista Giulio Paolo vissuto tra il II e il III secolo d.C. (4) il quale riferisce che la legge comminava la pena capitale per il reato di violenza sessuale consumata e della pena della deportazione per il reato rimasto allo stato di tentativo (perfecto flagitio capite puniatur, imperfecto in insulam deportatur : nell’ipotesi di consumazione del reato il colpevole è punito con la pena capitale e nel caso in cui il reato è rimasto allo stato di tentativo è punito con la deportazione in un’isola).
2. La disciplina del raptus nella legislazione anteriore a Costantino.
Per quanto concerne specificamente il ratto la testimonianza più importante è sempre fornita da un responso di Marciano (5). Il testo sembra essere stato rimaneggiato dai compilatori giustinianei per conformarlo alle mutate esigenze repressive [probabilmente Marciano si era limitato a sancire solo il ratto di donna non sposata (vacantem mulierem) perché altrimenti avrebbe menzionato anche il maritus (marito) e non solo il pater (padre) tra le persone legittimate a proporre l’accusa di ratto]. Ciò premesso, il giureconsulto illustra tre principi:
1. Il rapimento di una donna sposata (nuptam) o non sposata (vacantem) è un crimine che va punito con la pena di morte
2. Se il padre della rapita (nel caso di donna non sposata) non dovesse chiedere la punizione del colpevole accogliendo le implorazioni di quest’ultimo, allora anche un terzo avrebbe potrebbe presentare l’atto di accusa contro il rapitore
3. La presentazione dell’atto di accusa non è sottoposto a prescrizione quinquennale.
I primi due punti sono piuttosto chiari, mentre qualche parola va spesa per l’ultimo.
Perché Marciano esclude che l’atto di accusa di ratto presentato da un soggetto terzo sia soggetto a prescrizione quinquennale?
La risposta, discende sempre dal fatto che originariamente non era stata concettualmente chiara la distinzione tra adulterio, violenza sessuale e ratto perché la legge Giulia sulla repressione degli adulterii aveva disciplinato unitariamente i reati attinenti alla sfera della pudicizia e aveva stabilito un termine di prescrizione quinquennale per la presentazione dell’atto di accusa. Solo in un secondo momento - come si è visto sopra - il ratto venne invece sanzionato espressamente come autonomo reato dalla legge Giulia sulla violenza pubblica.
Ciò spiega la ragione per la quale Marciano dice che l’atto di accusa per ratto non era soggetto alla prescrizione quinquennale ed efficacemente Ulpiano ricorda che nel caso di relazione sessuale illecita non poteva essere ridestato un fatto rimasto dormiente per 5 anni (6).
Marciano dunque prende atto che continuavano a pervenire alla cancelleria imperiale quesiti giuridici che tuttora ritenevano applicabile ai rapimenti di donne la legge Giulia sulla repressione degli adulterii e ribadisce ancora una volta la sua posizione negativa escludendone l’applicabilità anche con riferimento alla prescrizione.
3. Il crimine di raptus nella costituzione di Costantino del 320 e la sua configurazione come reato bilaterale: la severità delle pene e il divieto del matrimonio riparatore.
Fin qui la configurazione giuridica del ratto è quella vigente all’epoca di Marciano (giurista che come s’è visto visse a cavallo tra il II e il III secolo d.C.) il quale considerò dunque il ratto come un crimine autonomo unilaterale perpetrato mediante una condotta violenta in danno della vittima.
Un secolo dopo, Costantino disciplinò con una costituzione del 320 d.c. (cfr. Codice Teodosiano 9, 24) i comportamenti e le conseguenze penali che scaturivano dal rapimento di donne vergini soggette all’autorità paterna (7). Come si desume dall’incipit, l’imperatore evidenzia che il ratto per assumere rilievo penale deve essere commesso all’insaputa o contro la volontà del padre della donna e che conseguentemente si verifica quando una donna soggetta all’autorità paterna viene sottratta alla sua famiglia in assenza di accordo tra l’autore del fatto e il padre di lei; per questa ragione considera tale condotta un misfatto gravissimo contro l’ordine pubblico e delle famiglie che intende perseguire con la massima fermezza. Innanzitutto ricorda a coloro che hanno in animo di compiere tale crimine che a torto possono fare affidamento sulla benevola testimonianza di una fanciulla perché per diritto consolidato non le era consentito presentare denunce o rendere testimonianze a causa della volubilità ed incostanza del sesso femminile (propter vitium levitatis et sexus mobilitatem). Successivamente osserva che molte donne, per lo più quelle più giovani e inesperte, sono finanche consenzienti a seguire il rapitore e per tale motivo le assoggetta alla stessa pena prevista per il rapitore e i suoi complici. Quindi prende in considerazione l’ipotesi delle donne che non hanno resistito abbastanza al loro aggressore e le censura a tal punto da ritenerle corresponsabili del reato, anche se poi le sottopone a una sanzione di gran lunga più mite rispetto a quella comminata ai rapitori, l’esclusione dalla successione ereditaria dei loro genitori. La reazione di Costantino di fronte al crimine di ratto è implacabile nei confronti di coloro che hanno favorito il ratto: ad esempio, le nutrici, cioè le donne che hanno avuto in affidamento le ragazze alle quali fecero un dì da balie, qualora abbiano in qualche modo favorito con suggerimenti e consigli le giovani, sono punite mediante una colata di piombo fuso nella cavità orale; se a favorire il rapimento è uno schiavo o una schiava deve essere bruciato/a vivo/a.
La costituzione non specifica il tipo di pena comminata al rapitore, ai suoi complici e alla donna consenziente; tuttavia doveva sicuramente trattarsi della pena capitale eseguita nei modi più atroci: ciò si ricava dal testo della costituzione emanata nel 364 d.c. da Costanzo il quale, nel confermare la pena capitale per i rapitori disposta dal padre Costantino, tuttavia ne attenua le modalità di esecuzione (8). In sintesi, secondo la configurazione di Costantino, il ratto è un crimine a compartecipazione bilaterale nel senso che il rapitore – eventualmente insieme ai suoi complici – concorre con la donna, sia essa consenziente o meno. In considerazione della gravità del crimine Costantino esclude che in caso di condanna il rapitore possa presentare appello e al fine di favorire il più possibile la denuncia dei rapimenti - che dovevano costituire una vera e propria piaga sociale - stabilisce che se uno schiavo avesse svelato il ratto di vergini o nubili, rimasto nascosto o volutamente taciuto, avrebbe ottenuto lo status civile di Latino e, se già in possesso di tale status, avrebbe ottenuto la cittadinanza romana.
La condanna a morte del rapitore e quella più lieve della donna non consenziente nonché l’irrilevanza della testimonianza della donna stessa - sia che fosse stata ab origine consenziente al rapimento sia che lo avesse subito e successivamente avesse perdonato il rapitore - significano che Costantino vietò categoricamente il cd. “ matrimonio riparatore” e ciò è dimostrato anche dal fatto che l’imperatore sanzionò con la pena della deportazione i genitori della rapita che avessero tollerato il rapimento e acconsentito al suddetto matrimonio. Sotto il profilo della pura logica è difficilmente comprensibile che dopo avere sottolineato la volubilità e l’incostanza del sesso femminile (vitium levitatis et sexus mobilitatem) Costantino abbia addirittura ritenuto corresponsabili del reato giovani ragazze del tutto sprovvedute, e assai spesso niente affatto consenzienti solo perché non avevano opposto la dovuta resistenza.
Ma evidentemente l’imperatore muoveva dalla constatazione che molti rapimenti nascondevano di fatto fughe preordinate in un certo senso assentite - come sembra desumersi dal rigore con il quale punisce le governanti delle ragazze – e osserva inoltre che molte presunte aggressioni simulavano invece un consenso diretto tra l’uomo e la ragazza in danno dei suoi genitori in quanto poteva condurre ad un matrimonio che essi non avrebbero mai consentito: infatti, per il diritto romano il matrimonio si considerava avvenuto quando ricorrevano insieme la convivenza e l’affectio maritalis, cioè l’intenzione della coppia di essere marito e moglie vivendo insieme, aiutandosi reciprocamente e procreando figli. Conseguentemente, i genitori si sarebbero trovati di fronte al fatto compiuto lesivo della loro autorità che Costantino intendeva ripristinare per ragioni di ordine pubblico, non ammettendo quindi l’atteggiamento arrendevole, se non benevolo, assunto dai genitori delle rapite proprio perché tale comportamento avrebbe incentivato (e non scoraggiato) i rapimenti con ricadute pesantissime sulle famiglie oneste e sul mantenimento della pace e della quiete sociale.
4. Il crimine di raptus nella legislazione di Giustiniano e la sua configurazione come reato unilaterale: la severità delle pene, forme di risarcimento a favore delle donne vittime di rapimento e conferma dell’abolizione del matrimonio riparatore
Dopo Costantino altri imperatori legiferarono in tema di rapimenti di monache, converse e donne sposate, ma si deve alla costituzione di Giustiniano del 533 d.c. (9) una riforma organica della materia che include tutto il mondo femminile, le vergini, le donne libere non sposate, le monache (de sanctimonialibus, etiam virginibus et viduis) come recita l’ultima parte della costituzione, ma che comprende anche le donne sposate (nuptas mulieres), le schiave altrui e le libertine (ancillae vel libertinae) come si evince da altri passi della costituzione medesima. Addirittura, nello stesso giorno Giustiniano promulga un’altra costituzione [cfr. C.J. 1.3.53 (54)] riguardante appositamente il ratto delle vergini o vedove o diaconesse, cioè delle donne deo dedicatae: di essa si dirà più avanti. Giustiniano sanziona pesantemente il rapimento delle donne comminando la pena capitale agli autori di tale crimine, ma a differenza di Costantino, torna alla configurazione giuridica fatta propria da Marciano secondo cui il ratto andava considerato come un crimen unilaterale commesso dal rapitore (e dai suoi complici) in danno di una vittima, la donna.
Preoccupato per il grave turbamento dell’ordine pubblico provocato dalle purtroppo frequenti razzie che si verificavano nel vasto territorio dell’Impero sottoposto a guerre e turbolenze di ogni genere e che generavano angosce e violente reazioni da parte dei parenti delle vittime rapite, Giustiniano legittima l’uccisione dei rapitori e dei loro complici una volta scoperti e fermati in flagranza di reato dai genitori e dagli altri familiari.
Le sue preoccupazioni sono quindi rivolte alla cattura dei rapitori ancora in libertà, soprattutto quando si tratta di notabili e di persone influenti che fanno valere la loro autorità nella vita pubblica per eludere la punizione mediante la corruzione dei funzionari.
Quindi comanda ai prefetti del pretorio e al prefectus urbis della città di Costantinopoli, ai prefetti del pretorio dell’Illirio e dell’Africa nelle provincie, ai comandanti militari dei diversi distretti dell’ impero, al prefetto d’Egitto, al governatore d’Oriente, ai vicari e ai proconsoli e ancora a tutti i maggiorenti, ai comandanti, ai rettori delle provincie nonché ai giudici di qualsiasi ordine operanti nel territorio, di attivarsi con grande solerzia per arrestare i colpevoli infliggendo pesantissime pene, compresa la pena capitale, ma sempre nel rispetto della legge. Quindi dichiara inammissibile l’eccezione di incompetenza del tribunale adito perché considerata strumentale e dilatoria.
Giustiniano legittima i parenti delle vittime del ratto ad uccidere immediatamente gli autori del crimine scoperti e arrestati in flagranza sulla base di due considerazioni: la prima è l’evidenza della prova a carico degli aggressori che come tale non rende più indispensabile procedere oltre in via giudiziaria con un duplice vantaggio per lo Stato e per i parenti delle vittime.
La seconda è il fatto che l’immediata esecuzione avrebbe scongiurato il pericolo di fuga offrendo contemporaneamente immediata soddisfazione alle persone offese dal crimine ponendo termine o attenuando malumori e tumulti.
Per non lasciare zone d’ombra Giustiniano dispone che l’esecuzione in modo atroce della pena capitale deve essere inflitta anche a chi abbia rapito la propria fidanzata (sponsam suam).
Nell’ipotesi di rapimento di donne libere, ordina inoltre la confisca dei beni del rapitore e dei suoi complici in favore delle rapite, alle quali consente di portarli in dote in caso di matrimonio con un uomo che però doveva essere diverso dal proprio rapitore.
Il complesso dei precetti e delle sanzioni sin qui esaminati porta a concludere che Giustiniano considerò il ratto come un vero e proprio crimine contro la persona perché non fece alcuna distinzione in base alla condizione sociale e sullo status delle donne vittime di tale reato, anzi riconobbe alle donne libere il diritto al risarcimento dei danni mediante il trasferimento e la titolarità dei patrimoni confiscati ai condannati in loro favore.
Se dunque per Costantino la vergine rapita era stata considerata correa del rapitore nel crimine di ratto e la persona offesa dal reato era il padre di lei, per Giustiniano ogni donna – vergine, sposata o nubile, vedova, schiava altrui o libertina – viene considerata vittima del ratto perché colpita direttamente nella sua persona sia dal punto di vista materiale sia sotto l’aspetto morale.
Ma Giustiniano compie anche un altro importante passo in avanti non riconoscendo alcun rilievo all’eventuale consenso espresso dalla donna perché lo giustifica considerandolo diretta conseguenza delle trappole, delle insidie e dei raggiri posti in essere da un uomo scellerato che, approfittando della sua ingenuità e della sua inesperienza, l’ha istigata con blandizie e promesse a fuggire con lui: in altre parole, secondo Giustiniano, la donna non doveva essere considerata consenziente alla fuga perché la sua volontà era stata fuorviata e coartata.
Ciò premesso, l’imperatore si rende conto della prassi frequente per cui i genitori della rapita, sia pure non consenzienti al ratto, in cambio di promesse e di offerte di denaro provenienti dal rapitore o da altri, si dimostravano comunque disposti a concedere l’assenso al matrimonio della figlia con l’autore del rapimento, spesso forzando per la seconda volta la volontà della donna per motivi di interesse o per altre non commendevoli ragioni.
Gli erano infatti noti i trucchi e i sotterfugi escogitati per mettere a tacere lo stesso ratto o quanto meno per dissimularlo e quindi, per non lasciare margini di dubbio, sancisce che la vergine, la vedova o qualsiasi altra donna rapita non potranno unirsi in matrimonio con i propri rapitori perché il matrimonio riparatore avrebbe costituito un premio intollerabile e ingiusto che non poteva essere riconosciuto a coloro che adoperavano mezzi e strumenti eversivi dell’ordine pubblico.
Dunque Giustiniano vieta espressamente il matrimonio riparatore. Il matrimonio della rapita con il proprio rapitore, già duramente sanzionato da Costantino - che aveva comminato la pena della deportazione ai genitori della donna che avessero acconsentito alle nozze – viene dunque pienamente confermato da Giustiniano più o meno con le stesse parole (parentibus, quorum maxime vindicta intererat, sui patientiam praebuerint ac dolorem remiserint, deportatione plectendis : ai genitori, che dovrebbero essere molto interessati alla punizione, sarà applicata la pena della deportazione se risultano responsabili di avere tollerato la commissione del crimine o di averlo perdonato consentendo alle nozze). Altre disposizioni di Costantino recepite e confermate da Giustiniano sono il divieto per il condannato di presentare appello (nullam damus licentiam) e la sanzione del rogo a carico dei favoreggiatori di condizione servile sia maschi che femmine (concremari iubemus).
Con Giustiniano si assiste dunque ad una svolta epocale in tema di tutela delle donne perché egli dimostra di comprendere con grande oculatezza quale ruolo potessero giocare la giovane età e l’inesperienza di donne, per lo più giovani, poste improvvisamente di fronte alle insidie e alle malizie al mondo esterno, ben lontano e diverso da quello vissuto e percepito in famiglia.
Tuttavia, non tutte le donne erano ragazze tanto ingenue e sprovvedute e non tutti i genitori erano educatori tanto irreprensibili per cui non era certo infrequente che i valori morali venissero disinvoltamente soppiantati da interessi economici di vario tipo e da considerazioni molto prosaiche che nulla avevano a che vedere con la tutela delle virtù femminili e dell’onore familiare, eccezion fatta per le ipotesi di fughe romantiche o per il timore che la donna e dei suoi genitori di non trovare
un altro marito a causa delle maldicenze che accompagnavano il rapimento e che miravano a screditare le rapite facendole passare per finte ingenue.
Infatti, la costituzione di Giustiniano rappresentò purtroppo l’occasione per essere disinvoltamente aggirata per motivi di lucro soprattutto nella parte in cui attribuiva alla rapita la titolarità dei beni confiscati al rapitore e ai suoi complici.
Tale disposizione venne infatti utilizzata dalle donne e dai loro parenti con malizia e spregiudicatezza in aperta violazione della lettera e della ratio a cui la norma si ispirava e spesso venne interpretata dai giudici in modo così estensivo da riconoscere anche alla donna unitasi in matrimonio con il rapitore il diritto di disporre dei beni a lui confiscati in quanto essi vennero qualificati alla stregua di un privilegio (praemium legis) incondizionatamente acquisito. Analogamente, si giunse ad interpretarla nel senso di consentire alla donna che aveva contratto matrimonio col suo rapitore di ereditare per testamento tali beni nel caso di premorienza del marito.
Ovviamente tale interpretazione apparve eversiva e in palese contrasto con le chiare parole e con lo spirito della costituzione C.J. 9, 13, 1 che aveva espressamente consentito alle donne non sposate di portare i beni confiscati in dote al marito ma solo a condizione che costui non fosse il rapitore (praeter raptorem). Più avanti la costituzione aveva ricordato che nessuna donna, vergine, vedova o non sposata avrebbe potuto unirsi con il proprio rapitore, ma solo con un uomo indicato dai genitori, eccettuato il rapitore (nec sit facultas raptae virgini vel viduae vel cuilibet mulieri raptorem suum sibi maritum exposcere, sed cui parentes voluerint excepto raptore). Di fronte allo stravolgimento a fine di lucro del chiaro significato della costituzione, si rese quindi necessaria una nuova presa di posizione che fornisse l’ interpretazione autentica della legge e che ne chiarisse in modo ancor più efficace i divieti. Quindi, nel 563 d.C. Giustiniano promulgò la novella De raptis mulieribus et quae raptoribus nubunt idem [dei rapimenti delle donne che ciò nonostante sposano i rapitori (Novella 143)] (10). Tale pronuncia evidenziò la pretestuosità e illogicità della suddetta interpretazione
“…. Disponiamo che se una donna rapita, di qualunque condizione o età sia, dovesse ritenere di scegliere il rapitore come marito, specialmente se i genitori non lo consentono, non debba ricevere l’eredità né quale beneficio di legge né in virtù del testamento del rapitore e non debba in alcun modo rivendicare i suoi beni; al contrario, ordiniamo che il privilegio concesso dalla nostra legge alla donna rapita di rivendicare le sostanze del rapitore e di quelli che gli offrirono aiuto durante il rapimento, sia trasferito ai genitori, se entrambi o uno solo sopravvive, qualora si dimostri che non abbiano acconsentito alle nozze fin dal tempo del rapimento; e disponiamo che la donna rapita alla quale non dispiacque contaminarsi sposando il rapitore non debba ricevere (in eredità) il patrimonio del rapitore che va invece devoluto alle persone sopra nominate che non furono consenzienti a questo matrimonio. Infatti si devono punire queste sacrileghe unioni e quindi non
gratificarle con privilegi. E se i genitori della donna rapita sono già morti o hanno acconsentito a un delitto di tal genere, ordiniamo che i beni del rapitore e degli altri suoi complici siano rivendicati dal fisco. Stabiliamo che questa interpretazione non valga solo per i casi futuri, ma anche per quelli trascorsi, come se la nostra legge fosse stata promulgata fin dall’inizio con questa interpretazione”.
Dunque, la novella chiarì che l’interpretazione autentica delle disposizioni della precedente costituzione del 533 d.C. aveva valore retroattivo, come se fosse stata promulgata fin dalla predetta data, con l’effetto di annullare le decisioni che erano state prese in contrasto con essa.
Nel merito, dapprima prese in esame il caso in cui la donna rapita avesse acconsentito al matrimonio con il rapitore senza il consenso del genitori e lo bollò come unione sacrilega che andava quindi punita dalla legge e che pertanto non poteva essere né incoraggiato né premiato.
Stabilito dunque quale era l’autentico spirito della costituzione, la novella affermò due principi:
- se il marito era morto, la donna non poteva ricevere la sua eredità (hereditatem accipere) né in forza del privilegio concesso dalla costituzione (nec ex beneficio legis) né sulla base del testamento redatto dal marito (nec ex testamento raptoris)
- in ogni altro caso, la donna non avrebbe potuto rivendicare in alcun modo il patrimonio confiscato al rapitore (substantiam vindicare) qualora lo avesse in seguito sposato.
Sotto l’aspetto sanzionatorio stabilì invece che:
- il patrimonio confiscato (sia quello del rapitore poi sposato sia quello dei suoi complici), sarebbe stato devoluto ai genitori della donna (o a quello superstite) se costoro non avevano acconsentito alle nozze fin dal momento del rapimento (ex tempore raptus ipso), mentre invece sarebbe stato incamerato dal fisco nel caso in cui entrambi i genitori fossero deceduti.
- il patrimonio confiscato sarebbe stato sempre devoluto al fisco se i genitori della donna avessero acconsentito alle nozze sacrileghe (huiusmodi sceleris consenserunt).
Infine, avendo disciplinato compiutamente la materia, Giustiniano abrogò espressamente tutti i capitoli della lex Julia de vi relativi al ratto delle vergini, delle donne non sposate e delle altre donne consacrate a Dio nonché tutte le prescrizioni delle antiche leggi e delle sacre costituzioni.
La novella 143 confermò poi che quando la rapita era una donna coniugata o la propria fidanzata era comminata la pena capitale richiamando e ribadendo le disposizioni della costituzione del 533 (….. meminimus itaque pro raptu mulierum, sive iam desponsatae fuerint vel maritis coniunctae sive non vel etiam si viduae sint, legem ante posuisse, et capitis subiecisse supplicio: …. “pertanto abbiamo ricordato di avere emanato una legge per il rapimento di donne già fidanzate o sposate o non sposate o anche vedove e di avere assoggettato i colpevoli alla pena capitale”).
Come si è accennato sopra, Giustiniano promulgò anche un’altra costituzione [cfr. C.J. 1.3.53 (54)] espressamente rivolta a sanzionare il rapimento delle donne deo dedicatae, vergini e vedove votate alla castità nonché alle diaconesse (vergini o vedove consacrate che svolgevano funzioni liturgiche assistendo i poveri) e considerò il loro rapimento il peggiore dei crimini perché offendeva non solo gli uomini ma anche Dio. Molte sono le analogie con la costituzione generale (cfr. C.J. 9.13.1) tra cui la comminatoria della pena capitale a carico degli autori del crimine, ma la vera novità di quest’ultima costituzione consiste nel fatto che destinò la nuda proprietà del patrimonio confiscato all’istituto religioso presso il quale viveva la monaca (in asceterio vel monasterio) ovvero alla chiesa dove la diaconessa esercitava le sue funzioni (ecclesiae, cuius diconissa sit); in entrambi i casi riconobbe alle religiose l’usufrutto su tali beni (11).
5. La morte di Giustiniano e l’invasione dell’Italia da parte dei longobardi: la violenza sulle donne nelle legislazioni barbariche, in quella carolingia, nelle disposizioni canoniche, negli statuti comunali e in particolare in quello di Roma
Dopo Giustiniano la situazione politica, almeno per quanto riguarda l’Occidente, precipita.
Infatti dopo la guerra gotico-bizantina, conclusasi con la riconquista della penisola italiana da parte dell’imperatore; dopo le guerre intraprese per la riconquista dei territori che erano stati un tempo parte dell’impero romano (l’Illiria, la Spagna meridionale e buona parte della costa africana fino all’odierna Algeria), l’Italia, appena 3 anni dopo la morte di Giustiniano, viene in gran parte invasa
dai longobardi ad eccezione di alcuni baluardi bizantini rimasti nell’Italia meridionale e nell’Adriatico. I Visigoti strappano ai bizantini il caposaldo che erano riuscire a mantenere in Spagna, Costantinopoli riesce faticosamente a conservate i territori africani fino alla conquista araba, mentre deve scendere a patti con l’impero persiano.
In Italia i Longobardi applicano dapprima il principio della personalità del diritto (nel senso che ogni popolazione era regolata dai principi e dalla norme della propria etnia: ne è prova l’Editto di Rotari del 643) e passano gradualmente al principio della territorialità (le norme hanno come destinatari la generalità dei sudditi) dopo l’avvento al trono di Liutprando, il quale tra il 713 e il 735 promulga ben 153 leggi che risentono in modo piuttosto marcato dell’influsso esercitato dalla Chiesa a seguito della conversione alla fede cattolica della maggior parte dei Longobardi.
Relativamente al rapimento delle donne, Liutprando segue le consuetudini e le leggi longobarde disciplinandolo con una composizione pecuniaria, ma rispetto ai suoi predecessori considera la donna e i suoi familiari le vittime del reato.
Nel periodo carolingio le pene contro i rapitori inizialmente sono in gran parte ispirate da una visione religiosa (penitenza e scomunica). Successivamente Ludovico il Pio stabilisce che il rapitore di donne coniugate deve essere punito con l’esilio e la confisca dei beni, mentre Lotario vieta il matrimonio della donna rapita con il proprio rapitore e allo stesso modo dispose il Concilio di Meaux dell’845 che al canone 66 sancì carico degli autori di futuri rapimenti la scomunica e l’impossibilità a contrarre matrimonio con le donne rapite (sine spe coniugii perpetuo). In senso contrario, tuttavia, pur stigmatizzando la gravità del raptus, Graziano ammise a certe condizioni la possibilità di celebrare il matrimonio tra rapita e rapitore, ma altri decretisti tra cui Pietro Lombardo optarono per la linea della liceità del matrimonio tra rapitore e rapita in caso di convivenza affectu maritali. Giuridicamente Lombardo ritenne che tale fattispecie era del tutto analoga a quella di un matrimonio celebrato estorcendo con minacce il consenso della donna che quindi era da considerare nullo; tuttavia, siccome il matrimonio nullo per vizio del consenso poteva essere sanato con il consenso successivamente espresso, il decretista afferma che ciò valeva anche nel caso di rapimento qualora la rapita avesse acconsentito al matrimonio (12).
Questo orientamento “lassista” viene purtroppo recepito dalle alte gerarchie della Chiesa e l’impedimento al matrimonio viene fortemente ridimensionato fino ad essere quasi annullato.
Papa Lucio III nega che possa configurarsi il ratto, malgrado il contrario avviso dei genitori della donna, quando quest’ultima vi ha acconsentito e vi sia stata promessa di matrimonio prima della conoscenza carnale (13).
Addirittura Innocenzo III elimina del tutto l’impedimento dirimente quando l’originario dissenso della ragazza si fosse trasformato in consenso (14).
Anche se il ratto costituiva un delitto da punire (entrambe le decretali sono contenute all’interno del libro V che tratta il diritto penale) pare evidente che la prospettiva del matrimonio riparatore sulla base del consenso della rapita indeboliva lo stesso trattamento sanzionatorio (perché pesanti pene contro il rapitore avrebbero dovuto fare i conti con la vita matrimoniale) e non costituiva più un deterrente efficace per scongiurare azioni criminali future dello stesso genere. Gli sforzi compiuti da Giustiniano vennero pertanto oggettivamente frustrati anche perché il dissenso dei genitori della rapita non aveva alcun effetto se la donna si dichiarava consenziente al matrimonio. Preoccupa poi che non si ritenesse necessario esaminare con maggiore cura le ragioni del cambiamento di decisione da parte della donna rapita per valutare se costei fosse realmente libera di esprimere un valido consenso. E’ pur vero che le decretali riguardavano casi concreti con tutte le loro particolarità, tuttavia le decisioni assunte avevano una rilevanza giuridica che trascendeva i singoli casi a guisa di precedenti giurisprudenziali. Poiché nell’XI e XII secolo i Comuni italiani legiferavano autonomamente in materia penalistica (e ovviamente anche sul tema dei rapimenti), in Italia si assiste ad una babele di norme e disposizioni che oscillavano dalla pena di morte, alla confisca dei beni, al taglio della mano, alla semplice pena pecuniaria, mentre altre leggi spesso distinguevano tra donne oneste e meretrici ritenendo insussistente il reato se commesso in danno di prostitute. Per non dire dei principi dello ius commune - derivato dal diritto romano pervenuto attraverso la compilazione giustinianea – che era considerato diritto universale e che comunque concorreva con le normative statutarie. Relativamente al Comune di Roma istituito nel 1143, vale la pena di citare una norma contenuta negli Statuta Urbis del 1363 (15) (ma che con tutta probabilità era assai risalente nel tempo e prossima alla sua istituzione) che comminava la morte per impiccagione a chiunque avesse commesso il ratto di fanciulli e fanciulle sia per libidine, sia per ridurli in schiavitù sia per chiedere il riscatto in cambio della liberazione. Premesso quanto sopra, una donna rapita e/o violentata poteva in un caso trovare adeguata giustizia; un’altra volta doveva assistere umiliata alla condanna del colpevole al pagamento di una multa; un’altra ancora subiva l’onta di dovere reclamare a gran voce la sua onestà e talvolta era costretta a rispondere a insinuazioni maliziose magari e a sottoporsi a ispezioni corporali degradanti; un’altra volta, infine, doveva assistere all’assoluzione del suo aggressore.
6. I normanni e la legislazione a tutela delle donne di Ruggero II e di Guglielmo II d’Altavilla: le Assise di Ariano
Le cose andarono diversamente nel mezzogiorno d’Italia a partire dalla prima metà del XII alla metà del XIII secolo allorquando Ruggero II d’Altavilla, una volta consolidato il suo potere sui territori del meridione dell’Italia e della Sicilia, li riunificò nel 1130 assumendo il titolo di re di Sicilia. Per dimostrare che era il dominus del meridione Ruggero promulgò nel 1140 un corpo di leggi che avevano validità generale: si tratta delle Assise di Ariano che si ispirarono ad una pluralità di fonti giuridiche che spaziavano dai riferimenti biblici alle leggi longobarde, bizantine e canoniche, ma soprattutto al diritto romano, tramandato attraverso la compilazione giustinianea e introdotto in Normandia da monaci e giuristi italiani già dalla metà dell’XI secolo.
In tema matrimoniale la posizione della donna assunse un certo rilievo perché Ruggero si adoperò per assicurare la libertà di consenso dei nubendi e soprattutto della donna, attraverso norme chiare ed esaurienti che ponessero fine ad unioni più o meno segrete di difficile decifrazione sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista giuridico (cfr. Assise XXVI – Codice Vaticano latino 8782). Per questa ragione sancì l’obbligo della pubblicità del matrimonio (grosso modo assimilabile alle pubblicazioni nel rito concordatario) in modo da consentire tempestivamente ad ogni interessato la segnalazione di impedimenti ostativi alla sua celebrazione.
Re Ruggero, quindi, precorse i tempi se è vero che solo nel 1215 il Concilio Lateranense IV introdusse l’obbligo delle pubblicazioni nell’ordinamento canonico. Inoltre dispose che la celebrazione del matrimonio dovesse obbligatoriamente avvenire davanti a un sacerdote il quale, oltre a svolgere il ruolo liturgico previsto dal rito canonico, assumeva anche la funzione di pubblico ufficiale di stato civile (sembra quasi un’anticipazione ante litteram del matrimonio concordatario): la formale celebrazione divenne quindi un obbligo e come tale costituì un requisito di validità dell’atto in assenza della quale il matrimonio era nullo e inefficace.
Ruggero stabilì poi che il matrimonio doveva essere comunque preceduto dagli sponsali (promessa di matrimonio) a meno che la nubenda fosse una vedova. Anche sotto questo aspetto Ruggero precorse i tempi perché bisognerà attendere il Concilio di Trento per vedere finalmente introdotto nell’ordinamento canonico l’obbligo della celebrazione del matrimonio davanti al parroco o altro sacerdote da lui delegato: infatti solo con il decreto Tametsi del 1563 si stabilì - a pena di nullità - che il matrimonio doveva essere celebrato davanti al parroco in presenza di due testimoni e che era necessaria la firma di entrambi gli sposi in un apposito registro. Ciò serviva in primo luogo a garantire la libertà del consenso degli sposi e in secondo luogo a verificare ogni vizio di volontà ed ogni impedimento alla celebrazione del matrimonio per contrastare consuetudini e usi inadatti a garantire che le unioni fossero veri matrimoni e che anzi potevano celare pericolose sopraffazioni nei confronti delle donne. Proprio nel tentativo di porre un freno a tali vessazioni Ruggero stabilì che chiunque rapiva una monaca o una conversa a fine di matrimonio incorreva nella pena capitale (16) e vietò l’uso della violenza sessuale nei confronti delle prostitute alle quali era solo vietato di coabitare con le donne di buona reputazione (17): tale norma sarà in seguito ripresa e ampliata da Guglielmo II.
7. Federico II recepisce la legislazione normanna e a sua volta la amplia
E veniamo a Federico II. Promulgando nel 1231 il Liber Augustalis, maggiormente noto come Costituzioni melfitane, l’imperatore svevo definito Stupor mundi (questo è l’appellativo dato a Federico II) varò un corpus di leggi che recepivano principi del diritto romano, consuetudini longobarde e bizantine, ma soprattutto molte disposizioni dettate dai suoi predecessori normanni.
Relativamente al tema della violenza sulle donne Federico operò con saggezza in un mondo in cui la donna non aveva praticamente voce. Certamente Federico non era un filantropo, ma un uomo dei suoi tempi con tutti i suoi vizi ed era senz’altro un accorto politico; fin da bambino aveva dovuto fare i conti con le mire terrene del papato e con quelle dei suoi innumerevoli feudatari. Tuttavia, forse per la devozione che doveva alla madre Costanza che l’aveva purtroppo lasciato orfano in tenerissima età dopo averlo protetto da tutto e da tutti, forse per la sua vasta cultura (a Palermo aveva imparato l’arabo dalla comunità islamica ivi residente da secoli), forse per tutta un’altra serie di ragioni che sarebbe inutile elencare, si adoperò per reprimere severamente in modo organico sopraffazioni e soprusi.
7/a) Federico abolisce l’istituto del duello praticato per la definizione dei processi di violenza sulle donne e disciplina il processo indiziario decretando la pena di morte a carico dei colpevoli
Innanzitutto nei processi riguardanti la violenza inferta alle donne abolì l’istituto del duello ereditato dai suoi predecessori: infatti, come si legge nel Liber Augustalis, lo ritenne giustamente “un danno più che un pericolo” (pugnae non tam judicium quam dispendium).
Federico era conscio che, abolendo il duello come strumento di definizione del processo, sarebbe stato difficile a chi denunciava una violenza sessuale provare le accuse nel rispetto della procedura ordinaria, trattandosi di un reato solitamente commesso lontano da testimoni.
Tuttavia, non volendo lasciare impunito tale crimine che sanzionò con la pena di morte, decretò che in caso di confessione o di testimonianze di persone che avessero colti gli accusati in flagranza di reato, il giudice avrebbe potuto condannare a morte gli imputati senza chiedere il suo assenso.
Quando invece il processo era di natura indiziaria, Federico dettò le seguenti disposizioni (18).
“Se, d’altronde, la verità del fatto non potrà essere provata, ma si sarà accertato soltanto che colui che, con gesti o in altro modo, abbia attentato alla pudicizia di una donna, abbia ricevuto dalla donna o da altri per suo conto ben tre volte l’intimazione ad astenersi dal ripetere simili atti illeciti e se in seguito, sarà provato che costui è stato visto tra le grida e le urla di invocazione di aiuto della donna durante la colluttazione o la fuga dalla casa o presso la casa della donna, ovvero se sarà provato che, senza che vi sia stata la predetta diffida, abbia costretto la donna, tra le grida di quest’ultima, a sottostare alla sua violenza tentando di infrangere la difesa della sua verginità, per corromperla o abbia tentato di usare violenza a una donna non più illibata, stabiliamo che la causa medesima, pienamente discussa e magari corredata dalle prove predette o da altre simili, sia rimessa al giudizio della nostra coscienza, affinché abbia la dovuta conclusione attraverso il giudizio nella nostra autorità che abbiamo ricevuto dalla mano di Dio.
L’accusato sia frattanto affidato alle fedele custodia di garanti o al carcere”
Le disposizioni summenzionate evidenziano e descrivono tutti quei fatti sintomatici che in una visione complessiva delle risultanze processuali avrebbero potuto consentire ad un giudice serio e attento di riconoscere la colpevolezza. Al riguardo, Federico fa presente che dovevano assumere particolare rilevanza probatoria le seguenti circostanze: le intimazioni della donna al suo aggressore di desistere dalla sua condotta; il rinvenimento dell’imputato nell’atto in cui cercava di piegare l’aggredita alla sua volontà ovvero durante il suo tentativo di fuga dalla dimora della donna o nei pressi della sua casa; la chiara manifestazione dell’aggredita di non volere sottostare alla violenza desunta dalle sue grida e dalle urla di invocazione di aiuto rivolte ai vicini.
Evidentemente questa disposizione teneva conto del fatto che i giudici, avendo sempre fatto ricorso al duello, non erano abituati a istruire processi indiziari di tale delicatezza e ad emettere serenamente le relative decisioni, soprattutto quando vi era uno squilibrio sociale tra imputato e vittima che poteva riflettersi sulla maggiore attendibilità della versione fornita dall’uomo: in questo modo, in forza di tale norma i giudici si occuparono dell’istruttoria del processo e vennero alleggeriti dal peso della sentenza.
Tuttavia Federico aveva altri validi motivi per avocare a sé il giudizio finale: infatti, da una parte poteva verificare l’andamento della giustizia nei territori sottoposti alla sua sovranità e in secondo luogo poteva adottare decisioni conformi alle convenienze politiche del momento in nome della ragion di Stato, come del resto hanno sempre fatto e fanno i capi di Stato mediante l’istituto della grazia. Dunque, quando il processo era indiziario Federico volle riservare alla sua persona la sentenza.
7/b) Federico sanziona con la pena capitale anche il rapimento di donne e abolisce il matrimonio riparatore riportandosi alle costituzioni di Costantino e di Giustiniano
Esposte le linee processuali da seguire, Federico II stabilì la pena capitale a carico dei colpevoli del rapimento delle donne (libro I, titolo XXII, 1) (19).
Nella rubrica compare la dizione “De raptoribus virginum, vel viduarum” (“Dei rapitori di vergini e di donne non coniugate), tuttavia nel testo della disposizione sono comprese tutte le donne, vergini, vedove, spose e promesse spose (dove per vedove si intendono tutte le altre donne libere senza marito). Federico richiama espressamente le costituzioni di Costantino e di Giustiniano (Divorum Augustorum) che avevano sanzionato il ratto di ogni donna con la pena capitale e ordina che esse siano puntualmente osservate anche per quanto concerne il trattamento sanzionatorio dei complici e dei fiancheggiatori (et eorum complices, vel fautores).
Ma lo Stupor mundi richiama e recepisce le predette costituzione anche relativamente al divieto del “matrimonio riparatore”.
Si è visto in precedenza che dopo Giustiniano il divieto di matrimonio della rapita con il proprio rapitore era stato in parte o in tutto messo in discussione nelle varie legislazioni statutarie e finanche ammesso nel diritto canonico; ebbene, Federico II ripristina tale divieto dichiarando decadute le consuetudini sorte in alcuni territori del regno di Sicilia “secondo le quali si permetteva ai rapitori di sottrarsi alla sentenza capitale o sposando la rapita o dandola in sposa ad un altro”.
Quindi, questa norma fa capire meglio di ogni altro documento che il “matrimonio riparatore” era divenuto per consuetudine causa di estinzione della pena di morte, la qual cosa fa indubbiamente riflettere sulla considerazione in cui erano tenute le donne e quanto invece fu coraggioso il ripristino di norme emanate oltre sette secoli prima.
7/c) Federico conferma la pena di morte a carico dei violentatori di prostitute
Federico recepì inoltre un’importante disposizione del suo antenato Guglielmo d’Altavilla che riguardava la violenza esercitata sulle meretrici.
Come si è visto sopra, già Ruggero II, pur sanzionando il meretricio, aveva già vietato atti di violenza sulle prostitute limitandosi ad inibire la loro coabitazione con donne virtuose; ebbene, dal Liber Augustalis emerge che Guglielmo era andato anche oltre punendo con la pena di morte gli autori di simili comportamenti
Vale la pena di riportare di seguito tale passo (20)..
“Anche le sventurate che, per i turpi guadagni, sono considerate prostitute, godano della nostra benevolenza.
Ci siano grate del fatto che nessuno le possa obbligare, contro la loro volontà, a soddisfare il suo desiderio. Siano condotti all’estremo supplizio i violatori di questa disposizione generale, confessi
e colpevoli. Tuttavia, occorre avere considerazione del fatto che, se la violenza sia stata perpetrata in luoghi abitati, le violente urla della vittima devono avere segnalato immediatamente il crimine. Diversamente, se sarà trascorso un intervallo di otto giorni, la violenza non la si potrà ritenere consumata, a meno che non si dimostri che in quei giorni essa sia stata trattenuta contro la sua volontà”
Dunque Federico II ribadì che l’esercizio della prostituzione non legittimava nessuno a intrattenere rapporti sessuali con le meretrici contro la loro volontà e conseguentemente confermò che la massima pena andava applicata nei confronti dei violentatori prescindendo dalla condizione e status delle donne, non essendo una buona ragione il fatto che le meretrici non avevano più un onore da salvaguardare: ciò costituisce davvero una rivoluzione se si pensa che le violenze sulle prostitute generalmente non erano punite perché si faceva riferimento alla loro infima reputazione e non alla loro persona. In questo modo Federico sfatò un altro modo di pensare secondo cui la violenza sulle prostitute era considerata alla stregua di un “incidente di percorso” o di “rischio d’impresa”, del resto difficile da dimostrare. Anche con riguardo al crimine di ratto erano passibili di condanna non solo i rei confessi (volontariamente o meno) ma anche coloro che erano raggiunti da indizi concordanti e concludenti di colpevolezza quali le alte grida con le quali la donna invocava l’aiuto dei vicini di casa (e che da questi ultimi erano state percepite). Al di fuori di queste ipotesi, la prostituta che avesse subito violenza era legittimata a presentare una denuncia il cui esito dipendeva ovviamente dalle circostanze di fatto che era in grado di addurre contro l’aggressore sia per identificarlo sia per rendere plausibile l’accusa: certamente, non era impresa facile ma non lo è stata neppure nei secoli successivi fino ai nostri giorni, tenuto conto che solo da pochi decenni è stato possibile, ad esempio, compiere accertamenti clinici affidabili e sicuri a conferma delle dichiarazioni accusatorie. A causa della difficoltà di raccogliere elementi di prova, la denuncia era soggetta ad un termine di decadenza di otto giorni oltre il quale la violenza lamentata non veniva più presa in considerazione presumendosi come non avvenuta; molto saggiamente, però, il giorno dal quale era fatto decorrere il termine venne fissato in quello in cui la donna aveva riacquistato la libertà come nei casi di rapimento o segregazione. E’ opportuno segnalare le parole illuminate del proemio che precede la norma penale in argomento.
“Re Guglielmo
E’ degno della gloria della nostra maestà che tutti coloro che sono soggetti allo scettro del nostro comando siano governati difendendo gli uni dagli altri, tanto gli uomini quanto le donne, contro i
più potenti, i loro pari e gli inferiori, che la gloria della pace effonda benessere e non sia tollerato, in alcun modo, l’uso della violenza” (21).
Al di là di qualche espressione enfatica riscontrabile anche in testi molto vicini ai nostri giorni, il concetto espresso da Guglielmo d’Altavilla e recepito in pieno da Federico II è chiarissimo: chi governa deve pretendere che tutti i sudditi ricevano lo stesso trattamento a prescindere dal sesso e deve difenderli dalle angherie dei notabili e di coloro che li seguono nella gerarchia sociale non dovendo quindi tollerare o giustificare i comportamenti violenti.
Certamente la predetta disposizione prendeva atto dei soprusi e delle vessazioni cui erano sottoposti i sudditi (e che assai probabilmente continuarono a ripetersi anche dopo la sua emanazione), ma tutto ciò non diminuisce l’importanza di un principio fondamentale che è alla base delle costituzioni moderne, la tutela del cittadino dai pubblici poteri, tanto più perché non rimase un vuoto enunciato confinato nell’astrattezza, ma fu espresso proprio con riferimento a un crimine commesso su soggetti privi di dignità e di onore quali le prostitute.
7/d) Federico sanziona il comportamento omissivo tenuto da coloro che non soccorrono una donna che invoca aiuto mentre sta per subire una violenza
A completamento della disciplina sulla repressione della violenza sulle donne Federico II introdusse nel Liber Augustalis una disposizione di carattere solidaristico e di grande valore etico in forza della
quale chiunque avesse udito una donna gridare invocando aiuto mentre stava subendo una violenza, aveva l’obbligo giuridico di intervenire in sua difesa sotto la comminatoria della multa di quattro augustali. Con molto senso pratico Federico sgombrò subito il campo da giustificazioni di comodo perché giustamente ritenne l’ignavia un male pernicioso contrario all’etica sociale affermando che a nulla valeva la scusa di non avere udito le urla di invocazione (magari asserendo di avere dormito) eccepita da chi era in grado di sentire le grida o perché viveva sotto lo stesso tetto della donna o perché dimorava nelle adiacenze della sua abitazione. L’unica giustificazione che accettò era quella addotta da chi asseriva di essere sordo, zoppo o altrimenti menomato, ma in tal caso pretese la dimostrazione di tale stato di minorazione (22): soffermarsi in un commento su un principio civile di tale portata sembra oggi quasi scontato, ma certamente nel 1231 una simile regola iuris doveva apparire rivoluzionaria.
7/e) Federico sanziona con la pena capitale la donna che denuncia falsamente un uomo di crimini sessuali in suo danno e stabilisce il differimento dell’esecuzione della condannata gravida fino a 40 gg. dal parto
Federico II era un accorto politico e come tale non gli sfuggivano di certo i comportamenti maliziosi di talune donne che pur di raggiungere obiettivi illeciti o per vendicarsi di presunti torti non esitavano con perfidia a presentare false denunce di violenza a carico di uomini con i quali avevano intrattenuto una relazione ovvero nei confronti di giovani di buona condizione sociale ma particolarmente sprovveduti, magari simulando una gravidanza. Per tale ragione intese reprimere in modo radicale tali inqualificabili comportamenti comminando la pena di morte nei confronti delle calunniatrici introducendo una norma apposita di cui vale la pena riportare il testo.
“ L’imperatore Federico
Volendo spezzare la spirale di certe denunce insidiosissime e vili (che finora allignano con grave danno dei nostri sudditi) dovute al fatto che alcune donne mentendo denunciano l’onta del rapimento e la violenza mai subite, così che talora gli accusati - per timore delle accuse minacciate e presentate, del clamore e dell’esito del processo - accettano di contrarre matrimonio con esse senza averne alcuna intenzione, mentre in altri casi le stesse per ritirare l’accusa estorcono un turpe compenso, vogliamo e disponiamo che qualunque donna condannata per una falsa accusa di tal genere, tanto se presentata da lei stessa quanto se sostenuta da testimoni, stretta nei lacci della morte, percepisca di cadere nella fossa da lei preparata per altri.
Se al momento del supplizio sarà trovata in stato di gravidanza vogliamo, per umanità, che la pena sia differita fino a quaranta giorni dopo il parto e se il figlio da lei generato non avrà parenti prossimi o affini che lo possano allevare per amore di parentela e comandiamo che sia educato a nostre spese da parte dei nostri funzionari responsabili per territorio” (23).
Nonostante l’inflessibilità della punizione Federico, qualora le donne condannate alla pena capitale fossero risultate gravide, si preoccupò della sorte dei nascituri. Tale preoccupazione era stata già presente nel diritto romano tanto che nel Digesto si rinviene un responso di Ulpiano il quale senza mezzi termini aveva affermato che in tale caso l’esecuzione della pena andava differita per consentire alla donna di partorire (24). Tuttavia, Federico andò anche oltre e con grande senso di umanità (humanitate suadente) ordinò il differimento della pena fino e non oltre il quarantesimo giorno dal parto al fine di garantire al neonato l’allattamento e la prime cure; inoltre, si occupò della sua sorte ordinando che al sostentamento e all’educazione avrebbero dovuto provvedere, a spese della corona, i funzionari territorialmente competenti una volta accertata l’impossibilità di affidarlo a parenti o affini. Non ci sono parole per sottolineare l’apprezzamento per una legislazione che finalmente si occupava della sorte dei figli nati da madri condannate.
7/f) Federico istituisce il “gratuito patrocinio” a favore degli orfani, vedove e persone indigenti, ampliando le agevolazioni disposte a suo tempo da Costantino.
Federico II introdusse anche un’altra importante norma a difesa di tutti i soggetti deboli e indifesi che garantiva loro quello che con linguaggio moderno si chiama gratuito patrocinio (25).
“L’Imperatore Federico
Con la presente legge suggerita dal dovere di pietà, decretiamo che ai minori, alle vedove agli orfani, ai poveri e a tutti i soggetti deboli, soprattutto quando agiscono contro i potenti o quando sostengono in giudizio le loro ragioni, oppure quando rivendicano la giustizia della nostra Curia, debba essere garantita da parte della nostra Curia l’assistenza di avvocati e “campioni”; e se poi la causa lo richiederà, comandiamo che debbano essere sostenute, sempre da parte della nostra Curia, le altre spese di mantenimento per tutta la durata del loro soggiorno presso la Curia medesima nonché le spese occorrenti per la citazione dei testimoni. Vogliamo inoltre che non sia loro richiesto alcun compenso dai nostri funzionari e dai notai per la sottoscrizione delle sentenze”.
Federico si mosse nella scia di quanto aveva disposto l’imperatore Costantino che nel 334 aveva concesso agli orfani, alle vedove e a quanti versavano in condizioni miserevoli per malattia o per altre ragioni il beneficio del foro: tale beneficio consisteva nel fatto che quando costoro erano in lite con qualcuno e chiedevano di essere giudicati direttamente dalla Curia dell’imperatore (soprattutto perché l’avversario era persona assai importante che poteva influire pesantemente sull’esito del processo) erano dispensati dall’onere di recarsi a Costantinopoli potendo quindi svolgere le loro attività processuali nel luogo di residenza, al contrario dei loro avversari nel processo, specie quelli potenti, che invece avevano l’obbligo di recarsi alla Curia della capitale (26).
La costituzione di Costantino aveva rappresentato dunque un notevole riconoscimento a quanti vivevano in stato di povertà ovvero erano malati o fragili e che quindi avevano insormontabili difficoltà per avanzare le loro giuste pretese (o per respingere quelle altrui) nell’ambito di una causa civile; ma, anche su questo tema, Federico riuscì ancora a stupire andando oltre.
Egli infatti garantì alle vedove, agli orfani, ai poveri e a tutte le persone deboli di essere difesi a spese della sua Curia da avvocati o da “campioni” (i “campioni” definiti pugiles erano quei combattenti che si sfidavano a duello rappresentando ciascuno una delle due parti in causa) nei rari casi in cui aveva permesso tale usanza medievale.
Relativamente alla difesa in giudizio, gli avvocati erano messi a disposizione dei meno abbienti dal sovrano e ciò doveva valere sia quando gli indigenti intentavano causa ad altri sia quando dovevano respingere le pretese altrui (soprattutto nel caso in cui gli avversari erano personaggi influenti). Inoltre, il “gratuito patrocinio” non era solo limitato alle cause che si svolgevano nei tribunali in cui risiedevano i soggetti da tutelare ma si estendeva anche ai processi che si celebravano direttamente davanti alla Curia imperiale alla quale si erano rivolte le predette persone.
In quest’ultimo caso Federico – nel caso in cui la causa lo avesse richiesto - accollò all’erario, oltre agli onorari degli avvocati, anche le spese di mantenimento degli indigenti presso la Curia per tutta la durata del processo nonché le spese occorrenti per la citazione dei testimoni, vietando infine ai funzionari di chiedere un compenso e ai notai di riscuotere l’onorario dovuto per la sottoscrizione delle sentenze. Non è dato sapere se e in quale modo questa norma di civiltà abbia ricevuto applicazione; tuttavia, non può disconoscersi che, per la quantità di voci di spesa coperte, anticipò e forse anche superò le previsioni delle moderne legislazioni.
Va in ogni caso sottolineato che del “patrocinio gratuito” avrebbero potuto avvalersi tutte le vedove vittime di violenza sessuale e di ratto, visto che per tali reati Federico II aveva prescritto di procedere con processo ordinario a seguito dell’abolizione dell’istituto del duello quale strumento di giudizio (cfr. titolo XXII, 2 del libro I).
7/g Federico e la tutela della prole
In conclusione, per quanto detto in precedenza non può dunque sfuggire l’equilibrio dimostrato da Federico II nella difficile opera di bilanciamento delle contrapposte esigenze, la lotta contro ogni forma di sopraffazione dell’uomo sulla donna e il contrasto alle condotte maliziose e subdole di quelle donne che lucravano sulla loro capacità di seduzione per estorcere denaro o altri favori sotto la minaccia di false denunce di violenza sessuale per lo più allegando come prova lo stato di gravidanza.
Tuttavia, anche quando comminò la massima pena alle calunniatrici ebbe sempre riguardo alla prole, consentendo – come si è visto sopra al § 7/e - il differimento della pena fino a quaranta giorni dal parto e il mantenimento dei figli delle condannate a spese dello Stato qualora essi non avessero avuto parenti ai quali affidarli.
La cura della prole per un orfano rimasto in balìa di se stesso costituì una costante del pensiero di Federico come si evince anche da un’altra disposizione del Liber Augustalis in tema di adulterio che sanziona l’adultero con la confisca dei suoi beni; tuttavia, dovendo bilanciare tale esigenza con l’interesse dei figli, Federico afferma subito dopo con grande senso di umanità che in presenza di figli legittimi tale sanzione era inapplicabile perché iniqua in quanto sarebbe andata troppo oltre escludendo dalla successione l’incolpevole prole che non meritava di subire tale danno (periniquum est enim eos successione fraudari) (27).
8. In sintesi, Federico considera i crimini di ratto e di violenza sessuale reati contro la persona
Dal complesso delle disposizioni di legge fin qui evidenziate traspare che Federico II considerò i reati di violenza sessuale e di ratto come crimini contro la persona e non contro la pudicizia e l’onore ponendosi consapevolmente contro la tradizione che si richiamava alle leggi augustee: infatti, pur nei limiti del pensiero medievale, dimostrò un grande rispetto per la donna, tanto è vero che anche quando occasionalmente si prostituiva non volle incolparla del reato di meretricio limitandosi a vietarle la coabitazione con donne di buona reputazione (28).
Analogamente, pur consentendo il ripudio della moglie che si prostituiva, egli – sempre ispirandosi ad analogo precetto di Guglielmo d’Altavilla - dispose che il marito non aveva comunque il diritto di usarle violenza o di tenerla segregata (29) e proprio a tutela della donna e per scoraggiare il triste fenomeno dei rapimenti Federico II condannò fermamente il matrimonio riparatore, come aveva fatto prima di lui Giustiniano. Tuttavia, dopo la sua morte, furono seguite altre strade.
9. Eleonora d’Arborea disciplina il matrimonio riparatore riconoscendo alla donna la piena libertà di rifiutarlo
In tema di matrimonio riparatore una via intermedia fu percorsa da Eleonora d’Arborea che tra le altre materie si occupò anche della tutela della donna allorquando aggiornò la Carta de Logu (XIV secolo) applicandola al giudicato di Arborea (in sardo Rennu de Arbaree): la Carta era tanto avanzata che gli aragonesi, una volta divenuti sovrani della Sardegna, la recepirono estendendo il suo ambito di applicazione a gran parte dell’isola. E lo stesso fecero i Savoia, una volta divenuti re di Sardegna nel 1720, fino al 1826. Il giudicato d’Arborea era uno stato sovrano che comprendeva i territori della Sardegna centro-occidentale e che mantenne la sua indipendenza sino ai primi anni del XV secolo; Eleonora fu giudicessa (questo era l’appellativo che le competeva in quanto sovrana del giudicato) e introdusse tra le ordinanze “sui furti e sulle malefatte”, il capitolo XXI dal titolo “Di chi violentasse una donna sposata” che però non era limitato solo alle donne coniugate come si evince dal testo. Questa norma stabiliva che qualora un uomo avesse usato violenza sessuale su una donna sposata e fosse stato riconosciuto colpevole era condannato a pagare un’ammenda di cinquecento lire (cifra molto considerevole per l’epoca) e che, in caso di mancato pagamento entro quindici giorni, avrebbe subito l’amputazione di un piede (“segad’uno pee pro modu ch’illu perdat”).
Se la donna fosse stata nubile l’ammenda scendeva a duecento lire ma l’uomo era tenuto a chiederla in sposa; tuttavia il matrimonio sarebbe avvenuto soltanto se la donna fosse stata consenziente. Nel caso di rifiuto della proposta di matrimonio, il colpevole era invece obbligato a farla maritare fornendole una dote commisurata alla condizione sociale della donna stessa e del suo futuro sposo. Ciò detto, nel caso di inottemperanza a tale obbligo il reo era soggetto all’amputazione del piede.
Per la donna vergine erano poi previste una pena e un’ammenda ma il colpevole non aveva l’obbligo di sposare la sua vittima. Se si considera il contesto sociale dell’epoca in cui venne aggiornata la Carta de Logu si può quanto meno affermare che il sistema sanzionatorio aveva seguito una logica ispirata alla valorizzazione della volontà della donna che non trovava altrove molti riscontri e che ne rispettava, per quanto possibile, la dignità.
10. Il matrimonio riparatore nelle disposizioni del Concilio di Trento e il suo rapporto con il processo penale secondo Prospero Farinacci
Sempre in ordine al matrimonio riparatore fu diversa la risposta data dal Concilio di Trento che pretese, come condizione di validità del matrimonio, la prestazione del libero consenso da parte della donna rapita specificando che esso poteva essere considerato tale solo dopo la sua liberazione e il suo collocamento in luogo libero e sicuro; al contrario, ritenne impedimento dirimente il consenso manifestato quando la donna si trova ancora in balia del rapitore (30). Tale orientamento fu seguito da Prospero Farinacci - giurista e autore di uno dei primi trattati organici di diritto penale che ebbero fortuna in Italia e in Europa – il quale confermò la liceità del matrimonio riparatore alle condizioni espresse dal Concilio di Trento, ma soprattutto si preoccupò di stabilire gli effetti giuridici del suddetto matrimonio riparatore nel processo per ratto: al riguardo, il penalista giunse ad affermare che essi non consistevano nell’esclusione della pena per l’autore del reato ma nella irrogazione della sanzione che il giudice avesse ritenuto di irrogare in considerazione delle circostanze del fatto di specie, quindi anche una pena diversa da quella capitale. In ogni caso, nell’ipotesi in caso in cui il matrimonio non fosse stato celebrato a causa del dissenso dei genitori della donna - anch’essi parte lesa dal reato - la pena avrebbe dovuto comunque essere mitigata (31).
11. La legislazione preunitaria del XIX secolo degli Stati italiani in tema di violenza sulle donne nei codici penali del Regno delle Due Sicilie, del Ducato di Parma e Guastalla, dello Stato pontificio, del Regno Lombardo-Veneto, del Granducato di Toscana, del Ducato di Modena e Reggio, del Regno di Sardegna
Venendo a tempi più recenti, si segnala che nel XIX° secolo in Italia ogni Stato preunitario promulgò il proprio codice penale. Al 1819 risale infatti il codice penale per lo Regno delle Due Sicilie, al 1820 il codice penale per gli Stati di Parma e Piacenza, al 1832 il Regolamento sui delitti e sulle pene emanato per i territori dello Stato pontificio, al 1852 il codice penale dei crimini, dei delitti e delle contravvenzioni per l’Impero d’Austria applicabile al Lombardo-Veneto, al 1853 il codice penale pel Granducato di Toscana, al 1855 il codice criminale e di procedura criminale per gli stati estensi del ducato di Modena e Reggio, al 1859 il codice penale per gli Stati di S.M. il re di Sardegna. Ebbene, tutti gli Stati adottarono un sistema sanzionatorio che considerava assai gravi i crimini di violenza sessuale e di ratto punendo la prima in misura maggiore (o quanto meno eguale) rispetto al ratto violento.
Così gli artt. 333 e 336 del codice napoletano sanzionarono lo stupro violento consumato con la reclusione e il ratto violento o fraudolento con la rilegazione (32)
Gli artt. 368 e 391 del codice parmense punirono lo stupro violento con i lavori forzati a tempo e il ratto violento o fraudolanto con la reclusione (33).
I crimini di stupro violento e di ratto violento furono invece puniti in egual misura con la galera da 10 a 15 anni dal Regolamento in vigore in tutti i territori dello Stato pontificio (artt. 475 e 479).
Il § 126 del codice austriaco comminò la pena da 5 a 10 anni di duro carcere per il colpevole di stupro violento (la pena oscillava da 10 a 20 anni di duro carcere se fosse derivato grave pregiudizio alla salute o alla vita della donna offesa); il § 97 sanzionò con la pena da 5 a 10 anni di duro carcere il colpevole di ratto violento “secondo la qualità dei mezzi impiegati e del male divisato od avvenuto”.
Il codice toscano punì la violenza carnale con casa di forza da 4 a 8 anni (se commessa in danno di femmina libera) ovvero da 5 a 10 anni (se commessa in danno di femmina coniugata o di religiosa); viceversa, sanzionò il ratto violento non seguito da violenza sessuale con la carcere da 2 a 5 anni e il ratto seguito da abuso sulla donna con la medesima pena stabilita per la violenza carnale (artt. 281 e 284) (34). L’art. 426 del codice penale del ducato di Modena e Reggio comminò per lo stupro violento la pena dei lavori forzati estendibile agli anni 7 e l’art. 436 § 1 e 2 punì il ratto violento con la pena dei lavori forzati da 5 a 7 anni (se la donna offesa fosse stata coniugata) o con la carcere da 1 a 3 anni (nel caso di vedova o di nubile) (35).
Infine, il codice sardo punì sia lo stupro violento sia il ratto violento con la relegazione estensibile a 10 anni (artt. 489 e 493). I codici suddetti inoltre – ad eccezione di quello in vigore nello Stato pontificio (cfr. Titolo X del libro II) e di quello austriaco (cfr. Parte prima capo IX e XIV) che non avevano attribuito alcun effetto penale al matrimonio “riparatore” - regolarono in modo abbastanza uniforme l’ipotesi in cui rapitore e rapita avessero contratto matrimonio dopo la consumazione del ratto dichiarando l’improcedibilità dell’azione penale contro il rapitore qualora la donna rapita non fosse soggetta a patria potestà o tutela (art. 338 del codice penale del Regno delle Due Sicilie; art. 395 del codice penale del ducato di Parma e Piacenza; art. 288 del codice penale toscano; art. 441 del codice penale del ducato di Modena e Reggio; art. 498 del codice penale sardo). Nel contempo, le predette legislazioni ritennero concordemente che, nell’ipotesi in cui la donna fosse stata ancora soggetta all’autorità dei genitori o delle persone cui spettava dare il consenso al matrimonio, il processo penale contro il rapitore avrebbe potuto iniziare solo su istanza dei genitori o tutori (36).
Viceversa, ogni Stato regolò in modo diverso gli effetti che il matrimonio poteva produrre sulla definizione del processo penale avviato a seguito dell’istanza o querela dei genitori o delle altre persone legittimate.
Secondo l’art. 338, seconda parte, del codice penale del Regno delle Due Sicilie, la querela dei genitori o degli altri legittimati permetteva l’instaurazione del procedimento penale ma impediva al giudice di pronunciare sentenza fino a quando l’autorità civile competente non si fosse espressa in ordine alla validità del matrimonio agli effetti civili: quindi, se il matrimonio non fosse stato riconosciuto idoneo a produrre effetti civili (per fatti ostativi o per impedimenti di vario genere) non avrebbe prodotto alcun effetto sul processo penale consentendo quindi la condanna del rapitore; se invece fosse stato riconosciuto valido agli effetti civili, il vincolo matrimoniale avrebbe operato quale causa di estinzione del crimine di ratto imponendo il proscioglimento dell’imputato.
Secondo l’art. 395 del codice penale del Ducato di Parma e Piacenza, invece, una volta presentata l’istanza di punizione, il processo seguiva il suo corso e la sentenza non era sottoposta ad alcuna pregiudiziale sulla validità del matrimonio: conseguentemente il rapitore, se riconosciuto colpevole del ratto violento o fraudolento, era condannato alla pena prevista per il crimine commesso.
Per quanto concerne il Granducato di Toscana, l’art. 288 del codice penale stabiliva che con la querela dei genitori o degli altri legittimati il processo seguiva il suo corso e giungeva a sentenza; tuttavia, se il matrimonio era riconosciuto “valido” il rapitore era condannato alla carcere da un mese ad un anno; nel silenzio della legge, si deve desumere che se il matrimonio non fosse stato riconosciuto valido il colpevole era soggetto alle pene stabilite per il ratto violento o fraudolento stabilite dagli artt. 284 e 285.
Il codice penale del Ducato di Modena e Reggio invece stabilì all’art. 441 che, una volta presentata l’istanza di punizione, il rapitore riconosciuto colpevole all’esito del processo sarebbe stato condannato alla pena attenuata prevista per il rapitore “pentito” dall’art 440 (37).
In modo del tutto analogo l’art. 498 del codice penale del Regno di Sardegna stabilì che dopo la presentazione dell’istanza di punizione colui che veniva riconosciuto colpevole sarebbe stato condannato alla pena meno grave prevista dall’art. 497 comminata a chi aveva posto volontariamente in libertà la donna rapita (38).
Nessuna delle legislazioni degli Stati preunitari riconobbe invece alcuna influenza al matrimonio successivo tra rapitore e rapita sul crimine di violenza carnale (o stupro violento) per cui il violentatore era sempre chiamato a rispondere di tale reato in sede penale.
Al termine di questa rassegna di legislazione si può affermare che tutti gli ordinamenti giuridici sopra richiamati risentirono profondamente del diritto romano che distingueva lo stuprum (rapporto sessuale illecito) dallo stuprum per vim (rapporto sessuale ottenuto mediante coartazione della vittima) tanto che utilizzarono gli stessi termini adoperati dai giureconsulti romani per esprimere i medesimi concetti.
Infatti, il codice penale del Granducato di Toscana distinse chiaramente la violenza carnale operata con la violenza (art. 281) dallo stupro, cioè dal rapporto sessuale viziato a causa della seduzione, dell’età della vittima, o perché operato dal fidanzato inottemperante alla promessa di matrimonio, ma pur sempre consensuale (art. 298).
Da parte sua il codice del regno delle Due Sicilie ebbe cura di aggiungere sempre dopo il sostantivo stupro l’aggettivo specificativo violento (artt. 333, 334, 335, 339).
Analogamente, il codice penale in vigore nello Stato pontificio operò una netta distinzione tra stupro semplice o qualificato da promessa di matrimonio dallo stupro qualificato per violenza ( artt. 468, 469, 470). Lo stesso dicasi per il codice penale parmense (art. 368) e per il codice penale sardo (art. 489) che per esprimere il concetto di violenza sessuale parlano di stupro violento.
Tuttavia, quello che desta la maggiore sorpresa è il fatto che il codice austriaco inserì il crimine di ratto a fine di libidine o di matrimonio fra tredici reati, eterogenei tra loro, ma accomunati nella medesima rubrica “Della pubblica violenza” ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico. In tal modo il legislatore austriaco si riportò testualmente all’analoga rubrica “De vi publica” che compare nel Digesto di Giustiniano (39) che elencava il ratto di donne e fanciulli tra le fattispecie penali ritenute altrettanti pericoli pubblici per la collettività.
In sintesi, anche nei codici che precedettero l’unità d’Italia – oltre che alle legislazioni risalenti sopra richiamate - erano dunque presenti sia l’esigenza di punire severamente ogni forma di violenza sulle donne sia la preoccupazione di tenere conto del vincolo matrimoniale, purché serio e avvenuto nell’interesse della ragazza rapita di cui si facevano portavoce i suoi genitori o tutori.
Certo, si può discutere a lungo se le soluzioni adottate dai suddetti legislatori preunitari in tema di ratto fossero efficaci per contrastare il triste e frequente fenomeno dei rapimenti o se non finissero invece per incoraggiarlo; tuttavia colpirono senza tentennamenti gli stupri violenti non facendo sconti di pena agli aggressori.
12. L’arretramento “maschilista” assunto dopo l’unità d’Italia dal codice penale Zanardelli (1889) e dal codice Rocco (1930).
Fu invece il primo codice penale del Regno d’Italia promulgato nel 1889 a far ripiombare la nazione nei secoli più bui dando la risposta più cinica, irrispettosa della dignità della donna e più biecamente maschilista: mi riferisco al codice penale Zanardelli che, con riferimento ai reati di violenza carnale (art. 331), atti di libidine (art. 333), corruzione di minore (art. 335), ratto di donna maggiorenne o emancipata (art. 340), ratto di minore o di donna coniugata (art. 341), affermò che il colpevole di tali reati
“va esente da pena, se, prima che sia pronunziata la condanna, contragga matrimonio con la persona offesa; e il procedimento cessa per tutti coloro che sono concorsi nel delitto, ferma, ove ne sia il caso, le pena per gli altri reati.
Se il matrimonio si contragga dopo la condanna, cessa l’esecuzione e cessano gli effetti penali di essa” (art. 352 c.p.).
Dunque, dopo l’unità d’Italia sul tema dei reati di violenza sulle donne il codice Zanardelli mise da parte le più avanzate legislazioni (mi riferisco soprattutto a quella napoletana e a quella toscana) e fece diversi passi indietro anche rispetto al codice sabaudo tornando ad una disciplina in cui la donna era senza diritti e la sua persona oggetto di scambio quale corrispettivo dell’impunità del colpevole mediante la proposta di matrimonio, frequentemente corredata da minacce o da offerte di denaro alla vittima o ai suoi parenti. Il matrimonio della violentata o della rapita con il suo aggressore avrebbe garantito l’impunità non solo a quest’ultimo ma anche ai suoi complici. Nessuna parola spese il codice per verificare le condizioni di tempo e di luogo in cui il matrimonio era avvenuto; nessun accenno fece alle condizioni psico-fisiche della donna per l’accertamento della validità del consenso al matrimonio. Ciò che contava era solo chiudere in fretta “la pratica” con un matrimonio e mettere la sordina. Suonava poi come vera e propria beffa l’ultima parte dell’art. 352 “ferma, ove ne sia il caso, la pena per gli altri reati” per cui una lesione anche di non particolare gravità cagionata alla donna in conseguenza dell’aggressione era invece punibile perché ritenuta più importante dell’offesa alla dignità morale della persona.
E il codice Rocco del 1930 seguì pedissequamente il codice Zanardelli su questa scia.
Infatti, prima che venisse abrogato dalla legge 5 agosto 1981, n. 442, l’art. 544 codice penale ricalcava l’art. 352 del codice Zanardelli
Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’art. 530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.
Tale inaccettabile arretramento giuridico e culturale è rimasto colpevolmente in vigore nel nostro ordinamento per ben 33 anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica: tutti i reati commessi con violenza contro la donna (violenza carnale (art. 519), atti di libidine violenti (art. 521), ratto a fine di matrimonio (art. 522), ratto a fine di libidine (art. 523), ratto di persona minore di anni 14 o inferma, a fine di libidine o di matrimonio (art. 524), corruzione di minorenni (art. 530), rientravano nella previsione dell’art. 544 e tutti coloro che li avevano commessi non erano perseguibili nel caso di matrimonio tra aggressore e aggredita.
Nessuna delle preoccupazioni che avevano ispirato i provvedimenti di Federico II, nessuna delle cautele che aveva suggerito Prospero Farinacci sul tema del cd. matrimonio riparatore (e che erano state in buona parte accolte nei codici preunitari) trovarono il minimo ascolto e le sopraffazioni dei rapitori e dei violentatori vennero legittimate e incoraggiate mediante il ricorso al matrimonio, in molti casi equiparabile a una seconda prevaricazione in danno della donna.
Non si vuole qui negare il fenomeno delle “fuitine” preordinate da entrambi i partners e talvolta incoraggiate dai genitori della donna magari per motivi economici (in tal modo si risparmiava, tra l’altro, il costo del ricevimento di nozze), ma la realtà ha dimostrato che molti rapimenti avvenivano contro la volontà delle stesse donne: la cronaca nera ha ampiamente illustrato i casi in cui una donna - nonostante le minacce, i ricatti, le lusinghe (spesso avallate dai suoi parenti) e avendo contro buona parte dell’opinione pubblica – con grande coraggio e sola reclamava a gran voce che non intendeva subire un’altra violenza e questa volta per tutta la vita.
Il maschilismo dominante e l’atteggiamento retrogrado e ostile a qualunque rivendicazione di libertà della donna di non soggiacere alla richiesta-ricatto di matrimonio (che, duole dirlo, è stato avallato anche da tante donne delle passate generazioni) hanno quindi permesso che una delle peggiori pagine della legislazione fascista continuasse impunemente a sopravvivere nell’ordinamento repubblicano.
Occorre attendere la legge 15 febbraio 1996, n. 66 per assistere al ritorno al passato: infatti fino a quel momento il codice Zanardelli del 1889 e il codice Rocco del 1930 avevano considerato il reato di violenza sessuale e il ratto come delitti contro la libertà sessuale collocandoli all’interno dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, ma solo con la predetta legge - che riformò integralmente la materia - tali crimini tornarono ad essere considerati reati contro la persona, proprio come secoli prima li avevano qualificati e sanzionati Giustiniano e Federico II.
Questo gravissimo ritardo non fa onore al parlamento che, detto per inciso, non intervenne neppure per abrogare quella odiosa norma (art. 559 c.p. del codice del 1930) che, ricalcando la legge di Augusto, puniva solo l’adulterio della moglie e non quello del marito con il pretesto tutto maschilista di non minare l’unità familiare: dovette pensarci la Corte costituzionale (sentenza 19 dicembre 1968, n. 126) a dichiarare incostituzionale il trattamento privilegiato riservato al marito affermando che per l’unità familiare costituisce un indubbio pericolo sia l’adulterio della moglie sia quello del marito e non solo quello della donna.
Per non dire del delitto d’onore (art. 587 c.p. del codice del 1930) che puniva con pene irrisorie chiunque
“cagiona la morte del coniuge, della figlia, della sorella nell’atto in cui ne scopre l’illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia” ovvero uccideva, nelle dette circostanze, “la persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”
analogamente a quanto aveva disposto l’art. 377 del codice del 1899 in forza del quale
«Per i delitti preveduti nei capi precedenti (capo I dell’omicidio e capo II della lesione personale: N.d.S.), se il fatto sia commesso dal conjuge, ovvero da un ascendente, o dal fratello o dalla sorella, sopra la persona del conjuge, della discendente, della sorella o del correo o di entrambi, nell’atto in cui li sorprenda in flagrante adulterio o illegittimo concubito, la pena è ridotta a meno di un sesto, sostituita alla reclusione la detenzione, e detenzione da uno a cinque anni».
Questa forma di mascherata licenza di uccidere andava ben oltre le previsioni del diritto romano che, in flagranza del reato di adulterio, consentiva l’omicidio della donna soltanto al padre di lei e non al marito (al quale permetteva solo di uccidere l’amante); inoltre superava di gran lunga anche la legislazione di Federico II che legittimava all’omicidio della coppia di amanti solo il marito della donna.
Infatti, il codice Rocco ampliò notevolmente la platea dei giustizieri che diventarono un quartetto: il padre (o la madre), il marito, il fratello (o sorella) e la moglie (sì anche la moglie perché il termine coniuge si riferisce sia al marito che alla moglie) e costituisce una ben magra consolazione rilevare che il codice del 1930 aveva depennato gli ascendenti (nonno e nonna) inclusi invece dal codice Zanardelli quali possibili legittimati a compiere il delitto d’onore.
Anche per il delitto d’onore occorre attendere gli anni ottanta del secolo scorso quando la legge n. 442/1981 lo abrogò insieme al matrimonio riparatore.
Molte tra le legislazioni antiche passate in rassegna, pur con tutti i limiti derivanti da pregiudizi, situazioni sociali, economiche e istituzionali assolutamente differenti e irripetibili, avevano in qualche modo fornito modelli su cui meditare, evidenziando preoccupazioni e fornendo suggerimenti e risposte; ma di esse non venne tenuto alcun conto.
In conclusione, è doloroso e preoccupante constatare che la violenza sessuale è stata riconosciuta a pieno titolo delitto contro la persona solo nel 1996 e che il matrimonio riparatore sia stato definitivamente cancellato dal nostro ordinamento solo nel 1981, ma qualcuno l’aveva già detto e fatto secoli prima.
Roberto Mendoza
(1) (ULPIANUS, libro quarto de adulteriis, D. 48.5.30.9)
Eum autem, qui per vim stuprum intulit vel mari vel feminae, sine praefinitione huius temporis accusare posse dubium non est, cum publicam vim commettere nulla dubitatio est
Inoltre non vi è dubbio alcuno che colui il quale usò violenza sessuale nei confronti di un uomo o di una donna possa essere accusato di tale crimine senza alcuna limitazione temporale così come non vi è alcun dubbio che costui ha commesso una violenza pubblica
(2) (MARCIANUS, libro quarto decimo institutionum D. 48.6.3.4)
Praeterea punitur huius legis poena, qui puerum vel feminam vel quemquam per vim stupraverit
Inoltre è punito ai sensi della medesima legge (la lex Julia de vi publica) colui che avrà violentato un fanciullo o una donna o qualunque altra persona
(3) (ULPIANUS, libro sexagesimo octavo ad edictum D. 48.6.10.2) Damnato de vi publica aqua et igni interdicitur
A chi è stato condannato per uno dei crimini previsti dalla lex Julia de vi publica sono interdetti il fuoco e l’acqua.
(4) (Pauli sententiae, 5.4.14)
(5) (MARCIANUS, libro quarto decimo institutionum D. 48.6.5.2)
Qui vacantem mulierem rapuit vel nuptam, ultimo supplicio punitur et, si pater iniuriam suam exoratus remiserit, tamen extraneus sine quinquennii praescriptione reum postulare poterit, cum raptus crimen legis Iuliae de adulteriis potestatem excederit
Chiunque rapì una donna non sposata (perché nubile o vedova) ovvero sposata, va punito con la pena capitale e, nel caso in cui il padre della donna avesse rinunziato a chiedere la punizione del reo perché persuaso dalle sue preghiere, tuttavia al terzo interessato sarà riconosciuto il diritto di accusare il reo anche oltre i limiti della prescrizione quinquennale dal momento che il crimine di ratto si pone al di là delle previsioni della legge Giulia sulla repressione degli adulteri.
(6) (ULPIANUS, libro quarto de adulteriis D. 48.5.30.5)
ne crimen quinquennio continuo sopitum excitetur affinché non possa essere risvegliato un reato rimasto sopito ininterrottamente per cinque anni
(7) C. Th. 9.24 De raptu virginum vel viduarum, Jmp. Constantinus Augustus ad populum.
9.24.1 Si quis nihil cum parentibus puellae ante despectus invitam eam rapuerit vel volentem abduxerit, patrocinium ex eius responsione sperans, quam propter vitium levitatis et sexus mobilitatem atque consilii a postulationibus et testimoniis omnibusque rebus iudiciariis antiqui penitus arcuerunt, nihil ei secundum ius vetus prosit puellae responsio, sed ipsa puella potius societate criminis obligetur.
9.24.1.1 Et quoniam parentum saepe custodiae nutricum fabulis et pravis suasionibus deluduntur, his primum, quarum detestabile ministerium fuisse arguitur redemptique discursus, poena immineat, ut eis meatus oris et faucium, qui nefaria hortamenta protulerit, liquentis plumbi ingestione claudatur.
9.24.1.2 Et si voluntatis assensio detegitur in virgine, eadem, qua raptor, severitate plectatur, quum neque his impunitas praestanda sit, quae rapiuntur invitae, quum et domi se usque ad coniunctionis diem servare potuerint et, si fores raptoris frangerentur audacia, vicinorum opem clamoribus quaerere seque omnibus tueri conatibus. sed his poenam leviorem imponimus solamque eis parentum negari successionem praecipimus.
9.24.1.3 Raptor autem indubitate convictus si appellare voluerit, minime audiatur.
9.24.1.4 Si quis vero servus raptus facinus dissimulatione praeteritum aut pactione transmissum detulerit in publicum, Latinitate donetur, aut, si Latinus sit, civis fiat Romanus: parentibus, quorum maxime vindicta intererat, si patientiam praebuerint ac dolorem compresserint, deportatione plectendis.
9.24.1.5 Participes etiam et ministros raptoris citra discretionem sexus eadem poena praecipimus subiugari, et si quis inter haec ministeria servilis condicionis fuerit deprehensus, citra sexus discretionem eum concremari iubemus. Dat. kal. april. Aquileia, Constantino a. VI. et Constantino c. coss. C. Th. 9, 24 Del ratto delle vergini e delle donne non maritate
9.24.1. Se qualcuno in assenza di preventivo accordo con i genitori di una fanciulla dovesse rapirla contro la sua volontà o portarla via con il suo consenso confidando nelle giustificazioni che potrebbe fare costei la quale - a causa dell’ imperfezione scaturente dalla sua volubilità, dell’incostanza del suo sesso, della leggerezza di giudizio - i nostri antenati con risolutezza sottrassero alla possibilità di presentare denunce, di testimoniare e di compiere attività giudiziarie, sappia che a nulla gli possono giovare le testimonianze della fanciulla in forza dell’antico diritto e che piuttosto la fanciulla medesima concorre nel crimine commesso.
9.24.1 E poiché la vigilanza esercitata dai genitori viene spesso frustrata dalle chiacchiere e dai cattivi consigli delle nutrici,– il cui comportamento dovesse provarsi essere stato abominevole al pari dei loro consigli prezzolati – in primo luogo vogliamo che sul capo di esse sia inflitta la pena della chiusura della bocca e delle fauci dalle quali sono partiti gli scellerati incoraggiamenti mediante una colata di piombo fuso.
9.24.1.2 E se si accerta l’approvazione di tale condotta da parte della vergine, costei sia punita con la medesima severità che si deve usare nei confronti del rapitore, dal momento che non deve essere ad entrambi offerta l’impunità così come nel caso delle fanciulle rapite con la forza, qualora –nell’ipotesi di rapimento avvenuto in casa - avrebbero potuto opporsi ovvero – nel caso in cui fossero state sorprese fuori casa dall’audacia del rapitore – avrebbero potuto chiedere aiuto ai vicini gridando a gran voce difendendosi con ogni mezzo; tuttavia, a queste donne che non hanno saputo resistere abbastanza all’aggressore comminiamo una pena più leggera disponendo che la loro esclusione dalla successione dei loro genitori.
9.24.1.3. D’altra parte, se il rapitore è riconosciuto colpevole in modo incontestabile, l’appello da lui proposto deve essere dichiarato inammissibile
9.24.1.4. Se in verità qualche schiavo avrà denunciato il crimine di ratto rimasto nascosto o volutamente messo a tacere, gli sia riconosciuto lo status civile di Latino e nel caso sia già Latino, gli sia riconosciuta la cittadinanza romana: ai genitori, la cui premura doveva essere la punizione del colpevole, sia invece inflitta la pena della deportazione se avranno tollerato il ratto e frenato il giusto sdegno consentendo successivamente al matrimonio.
9.24.1.5. Comandiamo anche che gli associati e i complici del rapitore debbano essere assoggettati alla medesima pena prescindendo dal loro sesso e ordiniamo che se dopo la cattura qualcuno dei complici sarà risultato essere uno schiavo debba essere bruciato senza distinzione di sesso. Data ad Aquileia il 1° aprile 320 A.D.
(8) C.Th., 9, 24.2 Imp. Constantius A. ad Tatianum
Quamvis legis prioris extet auctoritas, qua inclytus pater noster contra raptores atrocissime iusserat vindicari, tamen nos tantummodo capitalem poenam constituimus
Sebbene sia evidente l’autorità che scaturisce da una legge anteriore con la quale il nostro illustre padre aveva comandato che i rapitori fossero puniti nei modi più crudeli, tuttavia noi ordiniamo che abbia luogo la pena di morte senza ricorrere a tali modalità
(9) C.J. 9.13.1. Imperator Justinianus A. Hermogeni magistro officiorum
Per Giustiniano ciò valeva a maggior ragione per il rapimento di donne sposate (nuptas mulieres) a causa della ricorrenza di due reati (duplex crimen), quello di adulterium e quello di rapina: egli pertanto stabilisce che la relazione illecita tra il rapitore e la donna coniugata (nupta) deve essere
punita ancor più severamente proprio a causa di quello che in termini moderni è definito come concorso formale di reati: con la novella 143 (v. infra) l’imperatore chiarirà meglio il suo pensiero.
Pr. Raptores virginum honestarum vel ingenuarum, sive iam desponsatae fuerint sive non, vel quarumlibet viduarum feminarum, licet libertinae vel servae alienae sint, pessima criminum peccantes capitis supplicio plectendos decernimus, et maxime si deo fuerint virgines vel viduae dedicatae (quod non solum ad iniuriam hominum, sed ad ipsius omnipotentis dei inreverentiam committitur, maxime cum virginitas vel castitas corrupta restitui non potest) et
merito mortis damnantur supplicio, cum nec ab homicidii crimine huiusmodi raptores sint vacui.
Ne igitur sine vindicta talis crescat insania, sancimus per hanc generalem constitutionem, ut hi, qui huiusmodi crimen commiserint et qui eis auxilium tempore invasionis praebuerint, ubi inventi fuerint in ipsa rapina et adhuc flagrante crimine comprehensi a parentibus virginum vel viduarum vel ingenuarum vel quarumlibet feminarum aut earum consanguineis aut tutoribus vel curatoribus vel patronis vel dominis, convicti interficiantur.
Quae multo magis contra eos obtinere sancimus, qui nuptas mulieres ausi sunt rapere, quia duplici crimine tenentur tam adulterii quam rapinae et oportet acerbius adulterii crimen ex hac adiectione puniri.
Quibus connumerabimus etiam eum, qui saltem sponsam suam per vim rapere ausus fuerit.
Sin autem post commissum tam detestabile crimen aut potentatu raptor se defendere aut fuga evadere potuerit, in hac quidem regia urbe tam viri excelsi praefecti praetorio quam vir gloriosissimus praefectus urbis, in provinciis autem tam viri eminentissimi praefecti praetorio per Illyricum et Africam quam magistri militum per diversas nostri orbis regiones nec non viri spectabiles praefectus Aegypti vel comes Orientis et vicarii et proconsules et nihilo minus omnes viri spectabiles duces et viri clarissimi rectores provinciarum nec non alii cuiuslibet ordinis iudices, qui in locis inventi fuerint, simile studium cum magna sollicitudine adhibeant, ut eos possint comprehendere et comprehensos in tali crimine post legitimas et iuri cognitas probationes sine fori praescriptione durissimis poenis adficiant et mortis condemnent supplicio.
Quibus et, si appellare voluerint, nullam damus licentiam secundum antiquae Constantinianae legis definitionem.
9.13.1.1. Et si quidem ancillae vel libertinae sint quae rapinam passae sunt, raptores tantummodo supra dicta poena plectentur, substantiis eorum nullam deminutionem passuris.
Sin autem in ingenuam personam tale facinus perpetretur, etiam omnes res mobiles seu immobiles et se moventes tam raptorum quam etiam eorum, qui eis auxilium praebuerint, ad dominium raptarum mulierum liberarum transferantur providentia iudicum et cura parentum earum vel maritorum vel tutorum seu curatorum.
Et si non nuptae mulieres alii cuilibet praeter raptorem legitime coniungentur, in dotem liberarum mulierum easdem res vel quantas ex his voluerint procedere, sive maritum nolentes accipere in sua pudicitia remanere voluerint, pleno dominio eis sancimus applicari, nemine iudice vel alia quacumque persona haec audente contemnere.
Nec sit facultas raptae virgini vel viduae vel cuilibet mulieri raptorem suum sibi maritum exposcere, sed cui parentes voluerint excepto raptore, eam legitimo copulent matrimonio, quoniam nullo modo nullo tempore datur a nostra serenitate licentia eis consentire, qui hostili more in nostra re publica matrimonium student sibi coniungere. oportet etenim, ut, quicumque uxorem ducere voluerit sive ingenuam sive libertinam, secundum nostras leges et antiquam consuetudinem parentes vel alios quos decet petat et cum eorum voluntate fiat legitimum coniugium.
9.13.1.2. Poenas autem quas praediximus, id est mortis et bonorum amissionis, non tantum adversus raptores, sed etiam contra eos qui hos comitati in ipsa invasione et rapina fuerint constituimus.
Ceteros autem omnes, qui conscii et ministri huiusmodi criminis reperti et convicti fuerint vel eos susceperint vel quacumque opem eis intulerint, sive masculi sive feminae sunt, cuiuscumque condicionis vel gradus vel dignitatis, poenae tantummodo capitali subicimus, ut huic poenae omnes subiaceant, sive volentibus sive nolentibus virginibus seu aliis mulieribus tale facinus fuerit perpetratum.
Si enim ipsi raptores metu atrocitatis poenae ab huiusmodi facinore temptaverint se, nulli mulieri sive volenti sive nolenti peccandi locus relinquetur, quia hoc ipsum velle mulieri ab insidiis nequissimi hominis qui meditatur rapinam inducitur. nisi etenim eam sollicitaverit, nisi odiosis artibus circumvenerit, non facit eam velle in tantum dedecus sese prodere.
Parentibus, quorum maxime vindicta intererat, si patientiam praebuerint ac dolorem remiserint, deportatione plectendis.
9.13.1.3. Et si quis inter haec ministeria servilis condicionis fuerit deprehensus, citra sexus discretionem eum concremari iubemus, cum hoc etiam Constantiniana lege recte fuerat prospectum.
Omnibus legis Iuliae capitulis, quae de raptu virginum vel viduarum seu sanctimonialium sive antiquis legum libris sive in sacris constitutionibus posita sunt, de cetero abolitis, ut haec tantummodo lex in hoc capite pro omnibus sufficiat.
Quae de sanctimonialibus etiam virginibus et viduis locum habere sancimus. D. XV k. Dec. Constantinopoli dn. Iustiniano pp. A. III cons. [a. 533].
C.J. 9.13.1 L’imperatore Giustiniano Augusto ad A. Ermogene direttore degli uffici imperiali
Pr. Abbiamo deciso che i rapitori di vergini caste o di donne libere - siano esse già state coniugate o siano nubili - ovvero di qualunque vedova quandanche sia libertina o schiava di altri, debbano essere puniti con la pena capitale perché colpevoli di orrendi crimini, soprattutto se si tratta di vergini o di donne non sposate consacrate a Dio (dal momento che il crimine non solo offende gli uomini ma lo stesso Dio onnipotente, soprattutto quando non può essere restituita la verginità o la castità violata): e a buon diritto gli autori di tale crimine devono essere condannati a morte in quanto i rapitori che hanno commesso tale misfatto non possono essere liberati al pari degli autori del crimine di omicidio.
Pertanto, allo scopo di impedire che in assenza di una rigida e tempestiva applicazione della legge il furore possa divampare, con la presente costituzione comandiamo che, nel caso di scoperta e cattura in flagranza di reato, i responsabili di crimini di tal sorta e quanti avranno loro prestato aiuto al momento del ratto siano uccisi dai padri delle vergini o delle donne non sposate o delle donne libere o di qualsivoglia donna o dai loro parenti, tutori o curatori o patroni o signori a causa dell’evidenza della prova della loro colpevolezza.
A maggior ragione disponiamo che ciò avvenga nel caso di rapimento di una donna sposata poiché sono addirittura due i crimini commessi, quello di adulterio e quello di ratto, ragion per cui l’adulterio dovrà essere punito più severamente a causa del concorso dei due reati.
Aggiungiamo ai rapitori delle donne sposate anche colui che avrà osato rapire la propria fidanzata che incorrerà nella medesima pena comminata ai primi.
Se poi, dopo la commissione di sì detestabile crimine il rapitore si sarà difeso facendo leva sulla sua influenza pubblica o si sarà dato alla fuga, ebbene comandiamo che i sotto nominati funzionari - gli eminenti prefetti del pretorio e l’illustre prefectus urbis di questa città regia; gli eminentissimi prefetti del pretorio dell’Illirio e dell’Africa nelle provincie al pari dei comandanti militari dei diversi distretti del nostro impero; l’illustre prefetto d’Egitto, l’illustre governatore d’Oriente, i vicari e i proconsoli e ancora tutti i maggiorenti, i comandanti, i chiarissimi rettori delle provincie nonché i giudici di qualsiasi ordine operanti nel territorio - si attivino con grande solerzia per poterli arrestare infliggendo loro pesantissime pene compresa la pena capitale, espletando le attività processuali previste dalle norme di legge, dichiarando inammissibile l’eccezione di incompetenza del foro procedente.
A questi condannati non concediamo la facoltà di interporre appello conformemente a quanto stabilito dalle leggi risalenti all’imperatore Costantino.
9.13.1.1 E se le donne rapite saranno state schiave o libertine i loro rapitori saranno egualmente soggetti alla pena sopra detta ma non subiranno la confisca del loro patrimonio.
Se al contrario, sarà stata rapita una donna libera, i beni mobili quelli immobili e gli animali tanto dei rapitori quanto dei loro complici saranno trasferiti a titolo di proprietà alle donne libere rapite a cura dei giudici, dei genitori, dei mariti, dei tutori o curatori delle donne medesime.
Nel caso in cui le donne non sposate intendessero contrarre matrimonio con un uomo diverso dal rapitore, potranno portare in dote tali beni o parte di essi; tuttavia, se non volessero sposarsi e vivere in castità comandiamo che i beni medesimi siano loro assegnati in piena proprietà con l’avvertenza che nessun giudice o qualsiasi altra persona possano derogare a questa disposizione.
Come si è detto, la vergine, vedova o qualsiasi donna rapita non potrà unirsi in matrimonio con il proprio rapitore, ma solo con un uomo che le avranno indicato i suoi genitori (eccettuato sempre il rapitore) perché in nessun modo e in nessun tempo è concesso dalla nostra serenità acconsentire al matrimonio con quelli che aspirano a ottenere il matrimonio adoperando modalità così eversive nei confronti dell’ordine pubblico.
Occorre dunque che chiunque voglia unirsi in matrimonio con una donna libera o libertina, lo chieda ai genitori o agli altri cui spetta dare il consenso in conformità alle nostre leggi e all’antica consuetudine per cui solo dopo averlo ottenuto si potrà procedere alla celebrazione di un matrimonio legittimo.
9.13.1.2. Comandiamo che siano assoggettati alle predette pene, cioè a quella capitale e alla confisca dei beni, non solo i rapitori ma anche i loro complici nel rapimento.
Tutti gli altri che, una volta scoperti, si dimostrasse che abbiano sorretto la loro azione ovvero l’abbiano favorita in qualunque modo – siano essi maschi o femmine di qualsiasi condizione, grado, dignità – saranno passibili della sola pena capitale affinché tutti subiscano questa pena, a prescindere dal fatto che le vergini o le altre donne sia consenzienti o meno alla commissione di tale reato. Se infatti l’atrocità della pena costituisce un deterrente per i rapitori, a nessuna donna, volente o nolente che sia, è imputabile il crimine perché la loro decisione scaturisce ed è la conseguenza delle insidie lanciate da un uomo scellerato, atteso che se costui non l’avesse istigata e raggirata con malefiche arti, non
l’avrebbe certo spinta ad una condotta così disonorevole.
Ai genitori, che dovrebbero essere molto interessati la punizione, sarà applicata la pena della deportazione se rei di avere tollerato la commissione del crimine o di averlo perdonato consentendo alle nozze.
9.13.1.3. Se poi tra i complici di un tale crimine vi fosse stato scoperto uno schiavo, comandiamo che costui venga bruciato vivo senza distinzione di sesso anche in conformità alla legge di Costantino.
Resteranno in avvenire aboliti tutti i capitoli della legge Iulia relativamente al ratto delle vergini, delle donne non sposate e delle altre donne consacrate a Dio nonché tutte le prescrizioni delle antiche leggi e delle sacre costituzioni.
Stabiliamo che la materia relativa al ratto di monache, di vergini e di donne non sposate è interamente disciplinata dalla presente legge [A.D. 533]
(10) Nov. 143, 1. (testo in latino) Sancimus itaque, si rapta mulier, cuiuscumque sit condicionis vel aetatis, raptoris nuptias eligendas esse censuerit, parentibus praesertim non consentientibus, nec ex beneficio legis nec ex testamento raptoris hereditatem accipere vel quocumque modo substantiam vindicare, sed praemium quod per legem nostram raptae mulieri datum est, ut raptoris et eorum qui auxilium ei tempore invasionis praebuerint substantiam vindicet, hoc ad parentes, si ambo vel unus supersit, qui nuptiis specialiter non probantur consensisse, ex tempore raptus ipso iure transferri, et patrimonium raptoris non iam raptam habere mulierem quae coniugio se raptoris inquinare non piguit, sed in personas transferri quas superius nominavimus eius non consentientes coniugio. Nam nefarios huiusmodi coitus poenis corrigi, non praemiis competit honorari. Quodsi parentes iam decesserunt vel huiusmodi sceleri consenserunt, substantia raptoris nec non aliorum qui facinoris fuerunt participes fisci uiribus vindicetur. Quam interpretationem non in futuris tantummodo casibus, verum in praeteritis etiam valere sancimus, tamquam si nostra lex ab initio cum interpretatione tali promulgata fuisset.
(11) (C.J. 9.13.1) Raptores virginum vel viduarum vel diaconissarum quae deo fuerint dedicatae, pessima criminum peccantes capitis supplicio plectendos fuisse decernimus, quod non solum ad iniuriam hominum, sed ad ipsius omnipotentis dei inreverentiam committitur
Comandiamo che i rapitori di vergini o di vedove o di diaconesse consacrate a Dio debbano essere condannati a morte avendo commesso il peggiore dei crimini perché hanno mancato di rispetto non solo agli uomini ma allo stesso Dio onnipotente.
(12) (Sent., I. IV, dist. 27) Verum tamen qui inviti et coacti coniuncti sunt, et postea, ab aliquo tempore, sine contradictione et querimonia coabitaverint facultas recedendi vel reclamandi habita consentire videtur, et consessus ille subsequens supplet quod praecedens coactio tulerat
Per la verità, tuttavia, a coloro che sono uniti malgrado il loro dissenso e anzi costretti a tale unione, qualora dopo un certo lasso di tempo si trovassero ancora a coabitare con l’aggressore in assenza di contrasti e di lamentele, si ritiene che tale comportamento vada inteso come rinuncia a reclamare il ritorno alla libertà accettando l’unione e tale consenso successivo pone rimedio al danno provocato dalla precedente costrizione.
(13) (Decretali di Gregorio IX, libro V, Titolo XVII Quum causam 6, de raptoribus)
Iste raptor dici non debet, quum habuerit mulieris consensum, et prius eam desponsaverit quam cognoverit, licet parentes reclamarent, a quibus eam dicitur rapuisse
Tale uomo non potrà essere definito rapitore nel caso in cui avrà ottenuto il consenso della donna con la quale si sarà fidanzato prima di avere rapporti sessuali con lei, a prescindere dal parere contrario dei genitori
(14) (Decretali di Gregorio IX, libro V, Titolo XVII Accedens ad apostolicam sedem, 7)
Rapta puella legitime contrahet cum rapitore, si prior dissensio transeat postmodum in consensum, et quod ante displicuit tandem incipiat complacere, dummodo ad contrahendum legitimae sint personae
La ragazza rapita contrae legittimo matrimonio con il proprio rapitore se l’originario dissenso dovesse trasformarsi in seguito in consenso e quindi se la condotta inizialmente respinta cominciasse a piacerle, purché si tratti di persone che possono contrarre matrimonio.
(15) Statuta Urbis, libro II, capitolo XXX
Quicumque rapuerit aut adduxerit libidinis vel plagii causa aut faciendi redimi aliquem puerum aut puellam aut rapi fererit suspendatur per gulam si capi poterit Chiunque avrà rapito o strappato di casa e condotto in altro luogo un fanciullo o una fanciulla a scopo di libidine o per impossessarsene ovvero per chiedere un riscatto oppure avrà tollerato il rapimento sia impiccato se potrà essere arrestato.
(16) (De raptu, Codice Cassinese 468)
Si quis rapere sacratas virgines aut nondum velatas causa iungendi matrimonium praesumpserit, capitali pena feriatur
Se qualcuno abbia osato rapire a fine di matrimonio vergini consacrate a Dio anche se non hanno ancora indossato il velo subisca la pena capitale
(17) (Assise XXVIII – Codice Vaticano 8782)
Que passim venalem formam exhibuit, et vulgo prostitutam se prebuit, huius criminis accusationem ammovet. Violentiam tamen ei ingeri prohibemus, et inter boni testimonii feminas, ei habitationem vetamus
(17) segue traduzione in italiano Colei che esibì in vendita il proprio corpo offrendosi come prostituta secondo l’accezione popolare, si pone nelle condizioni di essere accusata di questo reato; tuttavia vietiamo che costei subisca violenza sessuale proibendole però di coabitare con donne di buona reputazione.
(18) Liber Augustalis, libro I titolo XXII, 2. Quod si non ipsa rei veritas probari valeat, sed hoc solum, quod per mulierem, aut pro parte sua per aliquos, nunciatum ter fuerit alicui, qui signis aut modis aliquibus pudicitiam mulierisattentet, quod a reiteratione hujusmodi illicitae praesumptionis abstineat: et postea cum muliere clamante, et aliorum auxilium cum vociferationibus invocante, tamen in colluctatione, vel fuga vel etiam domo, vel prope domum mulieris ejusdem inventus fuerit: aut si denunciatione praedicta minime praecedente, mulierem clamantem sub se teneat violenter, virginitatis suae seram satagens aperire (et ipsam corrumpere), aut jam corruptae violentiam inferre: causam eandem plene discussam, et probationibus praedictis, aut similibus forsan instructam, ad conscientiam nostram remitti consemus, ut ex sententia motus nostri, quam de manu caelesti sumpserimus, causa terminum debitum consequatur: accusato tamen interim fidae custodiae fidejussorum, vel carceris, deputato.
(19) Liber Augustalis, libro I, titolo XXII, 1 De raptu virginum , vel viduarum
Imperator Fredericus
Capitalem poenam, quam contra raptores virginum, vel viduarum, sponsarum, vel etiam nuptarum; et eorum complices, vel fautores, Divorum Augustorum statuta sanxerunt, inviolabiter praecimus observari: illis consuetudinibus, quae in aliquibus partibus Regni Siciliae hactenus obtinebant, per quas raptores raptam sibi in matrimonio collocando, vel alii eam tradendo nuptui, se capitali sententia eximebant, omnino sublatis
20) Da Liber Augustalis, libro I, titolo XXI De violentia meretricibus illata
Miserabiles itaque mulieres, quae turpi quaestu prostitutae cernuntur, nostro gaudente beneficio, gratulantes, ut nullus eas compellat invitas suae satisfacere voluntati.
Contra hoc generale edictum satagentibus, consessis atque convictis, ultimo supplicio puniendis: habito tamen considerationis ordine, quod si in locis habitabilibus vis fuerit illata, clamor oppressae truculenter emissus, quam citius poterit, elucescat: alioquin non videtur vis illata si mora fuerit octo dierum spatio subsecuta; nisi forsitan iis diebus invita probetur fuisse detenta..
(21) Questo è l’incipit del titolo XXI del I libro del Liber Augustalis
Rex Guillermus
Omnes nostri regiminis sceptro subiectos decet maiestatis nostrae gloria gubernari: et alterum ab altero, tam mares quam feminas, nec a majoribus, nec a minoribis, nec aequalibus defendendo, pacis gloriam confovere: nec patia liquo modo vim inferri.
(22) Liber Augustalis, libro I, titolo XXIII Si quis mulieri violentiam patienti et clamanti non succurrerit
Fredericus Imperator
Quicumque mulierem clamantem audierit, cui forte violentia ingeratur, ad currendum et succurrendum ei, volumus audientem esse velocem. Quod si non fecerit, quatuor Augustales in poenam tam nocivae desidiae Camerae nostrae componat. Nec ad evitandam poenam aliquis simulare potuerit obauditum, qui aut sub eodem tecto, aut loco fuerit, unde vocem audire potuerit, qui surdu, aut sine dolo malo claudus, aut aliter imbecillis, aut vociferationis tempore dormiens, non probetur.
(23) Liber Augustalis, libro I, titolo XXIV De poena mulierum iniuste conquerentium
Fredericus Imperator
Pessimam et horrendam questus materiam, quae hactenus in grave dispendium subiectorum nostrorum invaluit, resecantes dum mulieres, quae raptus injuriam, vel violentiam passae non erant, de aliquibus per mendacium querebantur: et sic accusationis instituendae, vel institutae timore, dum judiciorum strepitus, vel eventus metuunt accusati, imparia matrimonia sortiuntur; interdum etiam stipem turpem a reis velamento praedictae accusationis acquirunt. Volumus et mandamus, ut quaecumque post haec de tali fuerit falsa delatione convicta, mortis laqueis irretia in foveam incidisse se sentiat, quam alterius casui praeparabat, si ea, quae detulerat, comprobasset.
Quae si supplicii tempore praegnans inveniatur, usque ad quadraginta dies, post partum ipsius, poenam humanitate suadente, volumus prorogari; et partum ex ea editum, si non habeat proximos, cognatos forsitan, vel affines, quos ad nutriendum ipsum affectio proximitatis inducat, de huius nostris, per officiales nostros, qui tunc temporis in illis partibus praeerunt, educari jubemus.
(24) ULPIANUS (libro quarto decimo ad Sabinum D. 48.19.3)
Praegnatis mulieris consumendae damnatae poena differtur quod pariat: ego quidem et ne quaestio de ea habeatur, scio observari, quamdiu praegna est
L’esecuzione della condanna inflitta a una donna che risulti incinta è differita fino al parto: e per l’appunto io, perché non vi siano dubbi, considero che il differimento va rispettato sino alla fine della gravidanza.
(25) Liber Augustalis, libro I, titolo XXXIV De dandis advocatis pupillis, et alii miserabilibus personis
Imperator Fredricus
Lege praesenti pietatis officio suggerente statuimus, pupillis, viduis, orphanis, pauperibus, seu quibuslibet debilibus, praesertim contra potentes agentibus, aut defendentibus causas suas, seu jura nostrae Curiae defendentibus, advocatos, et pugiles, si causa poposcerit, de Curia nostra gratis, et expensas alias victui necessarias, dum necessariam in Curia moram trahent, nec non testium producendorum impendia per Curiam largiri debere; et nullas ab ipsis praeterea sportulas ab Apparitoribus, vel Tabellionibus nostris omnino, aut pro sententiarum subscriptionibus aliquid volumus postulari.
(26) C.Th.1.22.2 Costantinus A. Andronico.
Si contra pupillos, viduas vel morbo fatigatos et debiles impetratum fuerit lenitatis nostrae iudicium, memorati a nullo nostrorum iudicum compellantur comitatui nostro sui copiam facere. Quin imo intra provinciam, in qua litigator et testes vel instrumenta sunt, experiantur iurgandi fortunam, atque omni cautela servetur, ne terminos provinciarum suarum cogantur excedere. Quod si pupilli vel viduae aliique fortunae iniuria miserabiles iudicium nostrae serenitatis oraverint, praesertim cum alicuius potentiam perhorrescunt, cogantur eorum adversarii examini nostro sui copiam facere. Dat. xv. kal. iul. Constantinopoli, Optato et Paulino coss.
(26) traduzione in italiano C. Th. 1.22.2 Costantino Augusto ad Andronico.
Se gli orfani, le vedove o i soggetti spossati dalla malattia ovvero le persone deboli avranno ottenuto il privilegio di essere giudicati dalla nostra benevolenza, sappiano che non potranno essere costretti da nessuno dei nostri giudici di presentarsi alla nostra Curia. Anzi, al contrario affronteranno il processo all’interno del territorio nel quale si trovano la parte in causa, i testimoni e i mezzi di prova da esperire.
Si adotti dunque ogni precauzione per impedire che i richiedenti siano costretti a lasciare i confini del loro territorio perché se gli orfani, le vedove o le altre persone che vivono miseramente a causa della malasorte chiedono di essere giudicati dalla nostra serenità, soprattutto quando temono fortemente l’influenza esercitata dai loro avversari, noi rispondiamo che siano questi ultimi a dover presentarsi alla nostra Curia.
Dato a Costantinopoli il 16 giugno 334, sotto il consolato di Ottato e Paolino
(27) Liber Augustalis, libro III, titolo LXXIV
… Sed rerum ad eos pertinentium confiscatio inducetur, si filios legitimos, ex eo matrimonio violato, vel alio non habuerint. Periniquum est enim eos successione fraudari, qui nati sunt eo tempore, quo huius tori lex legaliter servabatur
… Ma si disponga la confisca dei loro beni se non abbiano avuto figli legittimi dal matrimonio che hanno violato. Sarebbe quanto mai iniquo escludere dalla successione coloro che sono nati quando la legge del talamo era stata legittimamente osservata.
(28) Liber Augustalis libro III titolo LXVII
Quae passim venalem formam exhibuit, huius criminis accusationem amovit. Violentiam tamen ei ingeri prohibemus, et inter boni testimonii feminas eius habitationem vetamus
Colei che occasionalmente si prostituì è esente dall’accusa per tale reato. Proibiamo tuttavia che le sia fatta violenza limitandoci a proibirle di coabitare insieme a donne di buona reputazione.
Questo titolo recepisce anche letteralmente l’analoga disposizione del re Guglielmo d’Altavilla (Assise XXVIII – Codice Vaticano 8782).
(29) Liber Augustalis libro III titolo LXVIII
Repudium in hac accusatione semper est permittendum, neque violentia, seu detentio ahibenda
Quando ricorre tale accusa si deve sempre consentire al marito di ripudiarla, ma senza usarle violenza o segregazione.
(30) Decernit S. Sinodus, inter raptorem et raptam, quamdiu ipsa in potestate raptoris manserit, nullum posse consistere matrimonium, quod si rapta, a raptore separata et in loco tuto et libero constituta, illam in virum habere (segue 30) consenserit: eam raptor in uxorem habeat …. Raptus pro eo tempore est impedimentum dirimens (Concilium Tridentinum, sess. XXIV De reformatione circa matrimonium, cap. VI).
Ha deciso il Sinodo che non possa sussistere un valido vincolo matrimoniale tra rapitore e rapita fino a quando costei rimanga nella potestà del primo, ragione per la quale, se la rapita abbia acconsentito a prendere l’uomo per marito quando invece si trova lontana dal rapitore e collocata in luogo sicuro e libero, allora il rapitore può legittimamente prenderla in moglie … In caso contrario, sussiste un impedimento dirimente.
(31) …. Mediam eligendo viam, quod propter insequutum matrimonium de voluntate parentum, quibus etiam iniuria illata fuit, imponi possit aliqua poena non mortis, sed mitior
(FARINACCIUS, Praxis et theorica criminalis, Lugdunum, 163, q. 145 § Raptus, n. 28).
(32) Ai sensi dell’art. 3 la reclusione precedeva di un grado la relegazione in ordine di gravità decrescente.
(33) Ai sensi dell’art. 8 i lavori forzati a tempo precedevano di due gradi la reclusione.
(34) Ai sensi dell’art. 13 la casa di forza precedeva di un grado la carcere.
(35) Ai sensi dell’art. 10 i lavori forzati precedevano la carcere di un grado.
(36) art 338 codice penale del Regno delle Due Sicilie
“Se il rapitore, a’ termini de’ due articoli precedenti, volontariamente rimetta in libertà la rapita senza averla offesa ,e senza averne abusato, restituendola alla propria famiglia, o alla casa di sua custodia, o pure ponendola in altro luogo sicuro, la pena discenderà all’esilio correzionale o confino. Nel caso in cui il rapitore avesse sposato la fanciulla rapita, egli non potrà esser processato che a querela delle persone il di cui consenso, secondo le leggi civili, era necessario pel matrimonio, né potrà essere condannato se non dopo essersi pronunziato dall’autorità competente che il matrimonio non produca gli effetti civili: il tutto a’ termini delle leggi civili”.
art. 395 del codice penale del Ducato di Parma e Piacenza
“Ove il rapitore avesse sposato la donna rapita non si potrà procedere contro di lui, se non ad istanza delle persone, il cui consenso sarebbe stato necessario per contrarre matrimonio”
art. 288 del codice penale del Granducato di Toscana
“Quando il delinquente abbia contratto valido matrimonio con la donna, da lui comunque sottratta o ritenuta, si procede solamente a querela delle persone, il cui consenso sarebbe stato necessario per gli sponsali, e si applica la carcere da un mese ad un anno”
art. 441 del codice penale del Ducato di Modena e Reggio
“Ove il rapitore avesse sposato la donna rapita non si potrà procedere contro di lui se non ad istanza delle persone, che hanno la patria potestà, dell’emancipato o della madre nel caso dell’art. 78 del codice civile.
In questo caso il rapitore sarà punito come al precedente articolo”
art. 498 del codice penale sardo
“Ove il rapitore avesse sposato la donna rapita, non si potrà procedere contro di lui se non ad istanza delle persone il consenso delle quali sarebbe stato necessario per contrarre matrimonio: in questo caso, il rapitore sarà punito come nel precedente articolo”
(37) art. 440 del codice penale del Ducato di Modena e Reggio
“Quando il rapitore nei casi degli articoli 436 (ratto con violenza di donna maritata, di vedova o nubile), 437 (ratto con violenza o frode di minori sottoposti all’altrui potestà o direzione), 438 (ratto del minore consenziente a causa di seduzione), e prima che abbia luogo alcun procedimento, o denunzia, od istanza, rimetta in libertà la persona rapita senza averla offesa, e senza averne abusato, restituendola alla propria famiglia od alla casa di sua educazione, od in quella in cui era collocata, oppure ponendola in altro luogo sicuro, la pena sarà di carcere”
(38) art. 497 del codice penale sardo
“Qualora il rapitore nei casi degli articoli 493 (ratto violento di donna maggiore di età), 494 (ratto violento o con frode in danno di minori di anni 21 sottoposti all’altrui potestà o direzione), 495 (ratto mediante seduzione di minore degli anni 16 ), e prima che abbia luogo alcun procedimento, od alcuna denunzia, od istanza, rimetta volontariamente in libertà la persona rapita senza averla offesa,, e senza averne abusato, restituendola alla propria famiglia od alla casa di sua educazione, od in quella in cui era collocata, oppure ponendola in altro luogo sicuro, la pena sarà del confino o dell’esilio locale, o del carcere, secondo le circostanze”
(39) Si tratta del libro XXXXVIII titolo VI del Digesto. Il ratto di donne e fanciulli è citato da Marciano (MARCIANUS, libro quarto decimo institutionum D. 48.6.5.2).