Ponte Rotto oggi: foto di Roberto Di Donato scattata dall’isola Tiberina
Ponte Rotto e le alluvioni del Tevere: testimonianze e aneddoti
…
…. quamquam creber ac subitus incrementis est, nusquam magis aquis quam in ipsa urbe stagnantibus,
quin immo vates intelligitur potius ac monitor auctu sempre religiosius verius quam saevius
(PLINIUS, Naturalis Historia, III, 55)
…. sebbene (il Tevere) sia soggetto a frequenti e improvvise
inondazioni in nessun luogo maggiori che e Roma;
che anzi è considerato piuttosto come vate e premonitore,
posto che il suo rigonfiarsi viene sempre interpretato
in una visione preminentemente sacra
piuttosto che sotto l’aspetto catastrofico
(PLINIO, Storia naturale, III, 55)
La costruzione del ponte che i romani conoscono come Ponte Rotto sarebbe iniziata secondo alcuni storici ad opera di Manlio Emilio Lepido Numida nel III secolo a.C.
Il ponte sarebbe stato in seguito ricostruito nel 179 a. C. dai censori Marco Emilio Lepido e Marco Fulvio Nobiliore.
Successivamente, nel 142 a.C. il ponte sarebbe stato riedificato con archi in pietra ad opera dei consoli Publio Cornelio Emiliano e Lucio Mummio.
Il ponte, comunemente chiamato pons Aemilius dal nome del censore Marco Emilio Lepido, subì il completo rifacimento nel 12 a.C. ad opera di Ottaviano Augusto il quale rivestiva anche la carica di pontifex Maximus : per questa ragione prese il nome di “ponte Massimo”.
Doveva presentare 6 arcate sull’acqua, come si evince anche dal plastico di Roma all’epoca di Costantino che si trova esposto nel Museo della Civiltà Romana all’EUR.
La denominazione di “ponte di Santa Maria” si deve invece al fatto che, secondo un’epigrafe rinvenuta nel 1571, papa Giovanni VIII nell’872 o 873 avrebbe fatto trasformare il Tempio di Portunus (divinità portuale) - successivamente denominato erroneamente in Tempio della Fortuna virile - nella chiesa di S. Maria Vergine.
Tale chiesa sarebbe stata poi chiamata anche Sanctae Mariae in Secundicerio dal nome di Stefano Stefaneschi secundicerio - cioè il secondo personaggio più importante della corte papale - alle cui cure era stata affidata.
Il titolo di Santa Maria Egiziaca, patrona delle prostitute pentite, ricorre invece nei cataloghi del XV e XVI secolo.
Il ponte avrebbe successivamente ricevuto nel 1144 anche il nome di “ponte Senatorio” forse perché restaurato a spese del Comune e ciò è molto probabile visto che il 1143 segna l’avvio del libero Comune di Roma mediante l’istituzione del Senato.
Non si contano gli interventi di risanamento e restauro eseguiti sul ponte dal Medioevo in poi, per tutto il Rinascimento e oltre, a causa delle frequenti piene del Tevere.
Nel XIV secolo una fonte preziosa è costituita da un rogito notarile conservato nell’Archivio storico capitolino (1) dal quale si evince che in data 8 maggio 1369 i Conservatori della Camera Urbis appaltarono a Petruccio Lorenzo Saragona, Lello Maddaleno e Paolo Belcogia i diritti doganali che si riscuotevano a Ripa Grande (alias Ripa Romea) per la cifra di 2800 fiorini e che tale importo era necessario per il restauro e la riparazione del ponte che tornava ad essere chiamato Santa Maria.
Dalle premesse del contratto di appalto emerge infatti che la Camera Urbis aveva bisogno di denaro a causa dell’ennesima minaccia di crollo; che il papa Urbano V aveva depositato nelle mani del venerabile Francesco, presbitero e cardinale del titolo di santa Sabina, una rilevantissima quantità di fiorini da impiegare per la predetta riparazione; che tale somma veniva però erogata a condizione che il popolo Romano sostenesse la spesa rimanente stimata in 900 fiorini d’oro.
Si riporta di seguito tale riferimento
“Cum Camera Urbis indigeat a presens pecunie in maxima quantitate tum pro reparatione pontis Sancte Marie qui evidenter minatur ruinam, pro qua reparatione dominus noster papa deposuit penes venerabilem in Christo patrem et dominum Franciscum tituli sancte Sabine presbiterum cardinalem maximam quantitatem florenorum solvendam per ipsum in reparatione dicti pontis, dummodo quod per Romanum populum solvatur residuum videlicet VIIII c floreni auri….”
Pertanto, al fine di reperire urgentemente il denaro necessario, le autorità comunali si determinarono a concedere ai tre soggetti sopra menzionati l’appalto della dogana marittima di Roma - che aveva sede nel porto fluviale di Ripa Grande (detta anche Ripa Romea perché romei venivano definiti i pellegrini che ivi sbarcavano per recarsi nella città santa) – dal momento che era risultata infruttuosa un’asta solenne indetta con una pluralità di avvisi, comunicati in giorni diversi tanto nella città di Roma quanto nelle scale del Campidoglio mediante i consueti squilli di tromba, conformemente alle norme contenute negli Statuta Urbis.
Segue il testo.
“Et aliunde comodius dicta pecunia haberi non possit quam de infrascripta Ripa, et factis deliberationibus et reformationibus in prenominatis et publicis consiliisUrbis quod infrascripta Ripa vendatur et eius fructus et reditus per modum infrascriptum, ut patet manu predictorum Laurentii et Antonii notarii, facta subastatione solemni de ipsa Ripa pluribus et diversis vicibus et diebus tum per Urbem quam in scalis Campitolii ad sonum tube more solito et servatis aliis solemnitatibus tam de iure quam secundum formam statutorum Urbis et plus infrascripto pretio haberi non possit quantum ab infrascriptis emptoribus.”
Come si vede, per la riparazione del ponte era richiesta una rilevante spesa alla quale non si poteva fare fronte con mezzi ordinari se non mediante l’appalto delle opere (e delle funzioni) pubbliche, già collaudato un precedenza, e che storicamente risaliva addirittura all’ordinamento romano come attesta Polibio che nel II secolo a.C. aveva scritto
“molti lavori in tutta l’Italia, lavori che non riuscirebbe facile enumerare e che riguardano l’amministrazione e la costruzione di opere pubbliche, come pure dei fiumi, porti, giardini, miniere e, in breve, tutto quanto si trovava nel potere dei Romani, veniva dato in appalto dai censori” (Historiae, liber VI, 17.2).
La necessità di plurimi interventi di riparazione e restauro aveva fatto sorgere leggende e maledizioni connesse a prodigi e fatti soprannaturali mentre in verità la sventura del ponte nasce dalla sua infelice posizione causa di continue usure per molteplici ragioni: la prima, in quanto esso situato in prossimità di un’ansa dove l’acqua, specialmente nei periodi di piena, è maggiormente impetuosa; la seconda, perché eretto a valle dell’isola tiberina che riduce l’ampiezza del letto del fiume aumentando la velocità della corrente; la terza, perché posizionato obliquamente rispetto alla corrente del fiume che pertanto provoca forti sollecitazioni sui piloni e sulle arcate e soprattutto nei periodi di piena.
L’ultima ragione consiste nel fatto che le alluvioni si facevano sempre più frequenti e violente tanto che i Rioni Ponte, Campo Marzio e Pigna documentano ancora oggi le tracce dei livelli raggiunti dalle acque nei periodi di inondazione; le stesse inondazioni contribuirono, quindi, a lesionare progressivamente le strutture del ponte. L’alluvione del 1277 è attestata dalla più antica testimonianza (2) rimasta a Roma, una stele commemorativa (foto 1 e 2) posta sotto l’arco de’ Banchi in via del Banco di Santo Spirito che così recita:
Foto 1 - Targa posta su via del Banco di Santo Spirito
HUC TYBER ACCESSIT SED TURBIDUS HINC CITO CESSIT ANNO DOMINI MCCLXXVII IND. VI NOVEMB. DIE VII ECCL. VACANTE
QUI GIUNSE IL LIVELLO DEL TEVERE MA TORBIDO DA QUI PRESTO SI RITIRO’NELL’ANNO DEL SIGNORE 1277, SESTA INDIZIONE (3) NEL SETTIMO GIORNO DEL MESE DI NOVEMBRE MENTRE LA SEDE PONTIFICIA ERA VACANTE
(N.B. nello stesso mese di novembre del 1277 fu eletto papa a Viterbo Nicolò III come successore di Giovanni XXI)
Foto 2 - Stele commemorativa dell’alluvione del 1277 sita sotto l’arco de’ Banchi
D’altra parte la basilica di Santa Maria sopra Minerva reca sulla sua facciata numerose altre targhe a testimonianza dei culmini di piena raggiunti in occasione di altrettante alluvioni: una di esse ricorda così l’alluvione del 1422 (foto 3)
Foto 3 - Targa commemorativa dell’alluvione del 1422 (basilica di S. Maria sopra Minerva)
ANNO DOMINI MCCCCXXII IN DIE SANCTI ANDREE CREVIT AQUA TIBERIS USQUE AD SUMMITATEM ISTAE LAPIDIS TEMPORE DOMINI MARTINI PP. A. VI
NELL’ANNO DEL SIGNORE 1422 NEL GIORNO DI S. ANDREA L’ACQUA DEL TEVERE CREBBE FINO ALLA SOMMITA’ DI QUESTA LAPIDE AL TEMPO DEL SIGNORE PONTEFICE MASSIMO MARTINO V NELL’ANNO VI DEL SUO PONTIFICATO
Va ricordato che dopo l’alluvione del 1422 papa Martino V fece consolidare i piloni e le arcate del ponte rimasti danneggiati e che papa Nicolò V fece eseguire ulteriori restauri per il Giubileo del 1450.
L’alluvione del 1495 è invece ricordata da una targa posta sulla facciata della chiesa di S. Eustacchio (foto 4) che recita
AN SAL MVD TIBERIS SERENO AERE AD HOC ------------ SIG. CREVIT. NON. DECEMBR. ALEX. VI. P.M. AN. III
NELL’ANNO DI SALVEZZA 1495, PUR IN UNA GIORNATA DI CIELO SERENO IL LIVELLO DEL TEVERE RAGGIUNSE QUESTO SEGNO ---------- IL 5 DICEMBRE NEL TERZO ANNO DEL PONTIFICATO DI ALESSANDRO VI
Foto 4 - Targa commemorativa dell’alluvione del 1495 posta sulla facciata della chiesa di s. Eustacchio
Non a caso, dunque, l’odierna via del Banco di s. Spirito e l’odierna via dei Banchi Nuovi furono chiamate Canale di Ponte. Tuttavia, a rendere l’idea di come era stata ridotta Roma a causa della forte inondazione del 1495 è uno dei collaboratori, dell’ambasciatore della Repubblica Serenissima a Roma Girolamo Zorzi, il quale, in una lettera del 4 dicembre di quell’anno, attesta con sgomento l’elevatissimo livello raggiunto dall’acqua tanto che tra le varie parti della città andavano e venivano imbarcazioni e natanti di fortuna “come nella nostra laguna” (4).
Negli stessi termini si espresse Gregorovius sottolineando che
“le acque danneggiarono i palazzi, penetrarono nelle chiese e fluttuarono nelle strade, che furono percorse in barca come a Venezia” aggiungendo subito dopo che “molti furono gli annegati e i prigionieri rinchiusi nel carcere di Tor di Nona non poterono essere salvati” (5).
Il costante susseguirsi delle alluvioni finì per indebolire sempre più i piloni e le arcate del ponte Santa Maria e le autorità cercarono in più riprese di porre rimedio mediante interventi di riparazione e restauro, soprattutto dopo la devastante alluvione del 7 ottobre 1530 che provocò distruzioni e lutti forse anche maggiori di quelli causati 3 anni prima dai lanzichenecchi.
Riferisce ancora GREGOROVIUS che “circa seicento case andarono distrutte e molti ponti, tra i quali ponte Sisto, furono travolti” (6) e certamente il ponte Santa Maria rientrava tra essi.
Foto 5 – Targa commemorativa dell’alluvione del 7 ottobre 1530 (chiesa di S. Maria sopra Minerva)
L’alluvione del 1530 è così ricordata da una targa posta sulla facciata della basilica di Santa Maria sopra Minerva (foto 5)
ANNO DNI. M . D . XXX NELL’ANNO DEL SIGNORE 1530
OCTAVO IDVS OCTOBRIS . PONT NELL’OTTAVO GIORNO PRECEDENTE
VERO SANTISSIMI DNI LE IDI DI OTTOBRE NEL VII ANNO DEL
CLEMEN PAPE VII ANNO VII PONTIFICATO DI SUA SANTITA’
CLEMENTE VII
HVC TIBER ASCENDIT IAMQ, FINO A QUESTO LIVELLO GIUNSE IL
OBRUTA TOTA FVISSET TEVERE E GIA’ TUTTA ROMA STAVA
ROMA . NISI HVIC CELEREM SUL PUNTO DI ESSERE SOMMERSA
VIRGO TULISSET OPERAM SENZA IL REPENTINO INTERVENTO
DELLA VERGINE
A questo punto si rese necessario ripristinare l’efficienza di vari ponti e il restauro del ponte Santa Maria fu disposto nel 1549 mediante un’imposizione straordinaria.
Così, se nel 1369 il denaro occorrente per fare fronte a tale intervento era stato ottenuto appaltando l’intero servizio della dogana marittima, nel 1549 la Camera Apostolica si trovò costretta a fare i conti con notevoli spese questa volta coperte con una tassa straordinaria che gravò su varie categorie di contribuenti, in primis le cortigiane di Roma, definite anche curiali o Curiales perché registrate come tali e soggette alla Curia o al Tribunale del Cardinal Vicario.
Ciò è eloquentemente documentato nel tomo sulla “Tassa fatta alle cortigiane per la reparatione de ponte - 1549 - Ponte di Santa Maria (1548-1553) ” in cui sono dettagliatamente censite centinaia di cortigiane cui venne imposto di sostenere i pesanti costi della riparazione, ciascuna in ragione del 10% del canone di locazione dell’immobile in cui dimoravano (7).
Michelangelo, su incarico del papa Paolo III, aveva progettato decisi interventi strutturali e fatto impegnare molto denaro per l’acquisto del materiale necessario per consolidare i piloni del ponte e aveva iniziato i lavori.
Tuttavia, alla morte del pontefice e dopo l’elezione di Giulio III al soglio pontificio, il Buonarroti fu sostituito da Nanni di Baccio Bigio (pseudonimo di Giovanni Lippi) il quale aveva da tempo cercato di screditarlo al fine di scalzarlo dall’incarico, presentando un progetto meno dispendioso, assicurando una esecuzione più rapida dei lavori e soprattutto evidenziando la veneranda età del rivale che rendeva problematico il completamento dell’opera.
In sintesi, Nanni di Baccio Bigio ricostruì un pilone e le due arcate da esso sostenute e per volere del papa Giulio III realizzò al centro del ponte anche una cappella dedicata alla Vergine
Tuttavia, al contrario di Michelangelo, Nanni di Baccio Bigio operò senza perizia e senza scrupoli vendendo gran parte dei travertini a suo tempo designati per la tenuta e stabilità del ponte, utilizzando in loro vece materiale scadente opportunamente ricoperto e celato alla vista.
I lavori ebbero inizio nel 1551 e furono terminati nel 1553 e richiesero comunque un notevole esborso di denaro.
Una precisa testimonianza sui costi per la riparazione del ponte Santa Maria è fornita
da ADINOLFI il quale riferisce
“…. Dopo l’età di mezzo fu riparato più volte, così nel 1549, e lessi un mandato della Camera apostolica spedito nel 1550, ahi 13 di novembre, di scudi 200 di oro di Camera, a ragione di giuli 10 per scudo << solvendos creditoribus fabricae ultimae reparationis seu reformationis eiusdem pontis de anno proximae preterito 1549 factae >>: v. il libro dei mandati della Camera apostolica dal 1550 al 1551, pag. 21.”
L’A. subito dopo scrive
“nel 1552 leggesi nel libro de’ mandati suddetti a pag. 104 che Antonio Ubertino era il depositario della fabbrica del ponte di Santa Maria, e per questo fugli spedito un mandato di scudi 300, il che prova che in quest’anno vi fussero continuati i restauri.
Così veniva ad essere acconciato alli 20 di novembre del 1553, e l’architetto che presedeva al lavoro era Giovanni de’ Lippi fiorentino. V. il libro suddetto de’ mandati dal 1553 al 1555, pag. 29” (8).
Il disinvolto modus operandi di Nanni di Baccio Bigio destò notevole dissenso in Michelangelo il quale non mancò di manifestare le sue preoccupazioni in più occasioni facendo presente che il ponte non avrebbe potuto resistere ad una piena appena al di sopra della media.
E il Buonarroti esternò tale previsione soprattutto quando, nel transitare sopra il ponte da poco restaurato, disse a Giorgio Vasari di accelerare l’andatura del cavallo perché sentiva tremare le strutture.
Infatti, il 14 settembre 1557 il ponte non resistette ad una ennesima alluvione e crollarono proprio il pilone e le arcate appena ricostruite secondo le puntuali previsioni di Michelangelo.
Tutti questi fatti furono analizzati e riferiti dal Vasari:
“Aveva Michelagnolo fino al tempo di Paulo Terzo per suo ordine dato principio a far rifondare il ponte Santa Maria di Roma, il quale per il corso dell’acqua continuo e per l’antichità sua era indebolito e rovinava.
Fu ordinato da Michelagnolo per via di casse il rifondare e fare diligenti ripari alle pile, e di già ne aveva condotto a fine una gran parte e fatto spese grosse in legnami e trevertini a benefizio di quell’opera, e venendosi nel tempo di Giulio Terzo in congregazione coi chierici di camera in pratica di dargli fine, fu proposto fra loro da Nanni di Baccio Bigio architetto, che con poco tempo e somma di danari si sarebbe finito, allogando in cottimo a lui; e con certo modo allegavano sotto spezie di bene
per isgravar Michelagnolo, perché era vecchio e che non se ne curava, e stando così la cosa non se ne verrebbe mai a fine. Il Papa, che voleva poche brighe, non pensando a quel che poteva nascere, diede autorità a chierici di camera che come cosa loro n’avessino cura, i quali lo dettono poi, senza che Michelagnolo ne sapessi altro, con tutte quelle materie con patto libero a Nanni; il quale non attese a quelle fortificazioni, come era necessario a rifondarlo, ma lo scaricò di peso per vendere gran numero di trevertini di che era rifiancato e solicato anticamente il ponte, che venivano a gravarlo e facevanlo più forte e sicuro e più gagliardo, mettendovi in quel cambio materia di ghiaie et altri getti, che non si vedeva alcun difetto di drento, e di fuori vi fece sponde et altre cose, che a vederlo pareva rinovato tutto, ma indebolito totalmente e tutto assottigliato.
Seguì da poi cinque anni dopo, che venendo la piena del diluvio l’anno 1557, egli rovinò di maniera, che fece conoscere il poco giudizio de’ chierici di camera, e ‘l danno che ricevè Roma per partirsi dal consiglio di Michelagnolo, il quale predisse questa sua rovina molte volte a’ suoi amici et a me, che mi ricordo passandovi insieme a cavallo che mi diceva: “Giorgio, questo ponte ci triema sotto; sollecitiamo il cavalcare, che non rovini in mentre ci siàn su” (9).
A parte il depauperamento delle fondazioni che già di per sé denota nella migliore delle ipotesi l’imperizia di Nanni di Baccio Bigio, va sottolineato il colpevole impiego di materiale scadente non visibile all’esterno in luogo di quello idoneo, la qual cosa costituisce un triste precedente che purtroppo si riscontra anche ai giorni nostri in occasioni di gravi calamità naturali.
L’alluvione del 14 settembre 1557 a cui si riferisce Vasari è così descritta dallo storico Von Pastor (10).
“ …. il concistoro però non si poté tenere perché verso mezzanotte il Tevere ruppe e inondò una gran parte dell’infelice città. La catastrofe capitò all’improvviso, così che nessuno ebbe tempo di salvare i propri averi.
Nelle vigne presso Castel sant’Angelo furono trascinate via dall’impetuosa corrente molte case, i cui abitanti si erano rifugiati sui tetti. Poco mancò che fosse raggiunta l’altezza della piena del 1530.
In piazza san Pietro andavasi in barca. Dopo 24 ore l’acqua cominciò a poco a poco a diminuire e poterono allora valutarsi i danni.
Erano totalmente distrutti i ponti di s. maria (ponte Rotto) e nove mulini sul Tevere: avevano molto sofferto il ponte Fabricio, il passaggio conducente da Castel sant’Angelo al Vaticano e le nuove fortificazioni della città; erano prossimi a cadere chiesa e convento di s. Bartolomeo nell’isola Tiberina del pari che molte case e palazzi; furono annientate in sì grande quantità provviste di grano, vino e olio da temersi lo scoppio di una carestia.
Le vie e le piazze erano piene di pantano e sudiciume; in molti luoghi l’acqua stagnò e levavansi in aria odori pestilenziali e sorsero malattie di ogni sorta. L’inviato veneto opinava che la catastrofe fosse appena meno funesta che se Roma fosse stata saccheggiata. Un’altra conseguenza dell’inondazione fu il cambiamento del letto del Tevere, che si allontanò da Ostia più di mille metri”.
Come si legge nella testimonianza che precede, l’alluvione del 1557 fu di tale virulenza che non solo inondò tutta la città, ma addirittura fece allontanare di un chilometro il letto del Tevere dal castello di Ostia che a quel tempo era adibito anche a funzioni di dogana sulle merci trasportate sul Tevere .
Della memoria dell’alluvione è rimasta traccia nella lapide posta sulla facciata destra della basilica di Santa Maria sopra Minerva in cui una mano evidenzia la linea apicale raggiunta dall’acqua e dove una barca costituisce segno inequivocabile dell’alluvione (foto 6)
Questo è il testo
M.D.LVII . DIE . XV SEPTEMBRIS HUC THYBER ADVENIT . PAVLVS DUM QUARTUS . IN . ANNO TERNO EIUS . RECTOR MAXIMUS ORBIS . ERAT
IL 15 SETTEMBRE 1557 IL TEVERE GIUNSE FINO A QUESTO LIVELLO NEL CORSO DEL TERZO ANNO DEL PONTIFICATO DI PAOLO IV
Foto 6 - Stele commemorativa dell’alluvione del 1557 visibile sulla facciata della Basilica di S. Maria sopra Minerva
Del crollo del pilone e delle due arcate vi è traccia in un disegno (11) dell’arch. G.A. Dosio (1533-1611) che nella parte inferiore mostra il cedimento del pilone e delle due arcate restaurate da Nanni di Baccio Bigio descrivendolo come “Vestigia del Ponte S. Maria Ruinato p. l’inondatione del Tevere del 1557. La situazione del ponte dopo l’alluvione del 1557 rimase immutata fino a quando, per il Giubileo del 1575, papa Gregorio XIII incaricò l’architetto Matteo di Castello di ripristinare il pilone crollato e le due arcate da esso sostenute: ebbene, anche tale ricostruzione compare nella parte superiore del predetto disegno del Dosio” mediante la dicitura “Ponte S. Maria co[n] la parte Ristaurata”.
Matteo di Castello riuscì in due anni ad eseguire i lavori terminandoli per quell’anno giubilare come si evince dalla lapide murata su una arcata (che è l’unica oggi superstite) (12) ma la poderosa alluvione del 1598, pur risparmiando il pilone e le arcate restaurate da Matteo da Castello, questa volta fece scempio delle tre arcate di sinistra del ponte.
Dal 1598 il ponte non fu più restaurato e assunse quindi la denominazione di Ponte Rotto.
La memoria di della catastrofica alluvione è scolpita nel marmo di una stele posta sulla parete occidentale del complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia (foto 7).
Foto 7 - Stele commemorativa dell’alluvione del 1598 visibile sulla parete occidentale del complesso monumentale di S. Spirito in Sassia
CLEMENTE . VIII . PONT . MAX . ANNO EIUS SEPTIMO TYBRIS EOUSQE CREVIT PSA DNI . NATALI NOCTE M.D.XCVIII
NELL’ANNO VII DEL PONTIFICATO DI CLEMENTE VIII IL LIVELLO DEL TEVERE SALì FINO A QUESTO LIVELLO NELLA STESSA NOTTE DI NATALE DEL 1598.
Nell’ospedale di S. Spirito in Sassia operava san Camillo De Lellis.
La testimonianza della tremenda inondazione e dell’operato di s. Camillo De Lellis in favore dei malati di quel nosocomio è fornita da P. SANZIO CICATELLI (13) che
così riferisce:
“ ….. [De Lellis] consumava tutto il tempo nell’Hospitale di Santo Spirito. Dove particolarmente si ritrovò alli 24 di Decembre 1598 quando occorse in Roma quella grande inondazione del Tevere che non si ricordava la maggiore.
Nella qual notte esso non fece mai altro che salvare i poveri infermi portandone molti sopra le spalle proprie non curandosi che l’acqua gli andasse fino al ginocchio”
Relativamente al crollo del ponte Santa Maria, CICATELLI annota ancora:
“l’inondazione del Tevere del Natale 1598 fu una delle più gravi che, secondo un testimone oculare, Francesco Visdomini, costò la vita a molti cittadini e procurò a Roma danni incalcolabili (cfr. Lettere di Francesco Visdomini … a nome di diversi cardinali, Roma 1623, p. 260 ss.).
Il Cardinale nipote, Pietro Aldobrandini, che si era associato all’opera di soccorso, scampò miracolosamente a sicura morte.
Era appena passato sul ponte S. Maria o Palatino, che la massa irruente delle acque travolse ed abbatté le due testate, risparmiando appena l’arco di centro, quello che tuttora emerge dal letto del fiume, oltre l’isola Tiberina”
Un’ulteriore testimonianza dell’inondazione si ricava da una relazione del 1599 custodita presso l’Università di Sassari pubblicata dalla studiosa RITA FRESU (14).
Si riporta l’incipit della relazione stessa in cui è espressamente menzionato del crollo delle arcate del ponte Santa Maria che da poco erano state restaurate da papa Gregorio XIII come si è visto sopra
“Di Roma, lì 2. Genaro 1599
La causa dell’inondatione del Tevere è stata per venti Meridionali, onde la sera delli 23. Del mese di Decembre passato, cominciò a uscir del suo letto il Tevere ne’ luoghi più bassi della Città, crescendo tuttavia sino alle dieci hore della notte seguente, si che restò tutta la Città sotto acqua; fuori che li sette Monti, & la somità d’alcuni luoghi più rilevati nel mezzo della Città, superando di gran lunga li segni dell’altre inondationi, che sono seguite ne’ tempi antichi, & anco moderni, & perticolarmente di doi palmi più di quella, che venne al tempo di Papa Clemente Settimo, tanto memoranda, che seguì l’anno 1530. Il danno, che per ciò è causato, è tanto, è tale che si rende inestimabile, poi che non ci è persona, che non habbi sentito, in qualche parte, ò poco, ò assai, passando il danno à milioni, affermando tutti, che questo danno sia stato peggio di un sacco, & come la rovina sia stata infinita, non è ancora venuta à notitia del tutto, si dirà solo per hora, l’aver portato via otto Molini, havendoli somersi con gli huomini, & grano, che vi era dentro, & si è rovinato il Ponte di Santa Maria, da i duoi archi in fuori, restaurati dalla felice memoria di Papa Gregorio Decimoterzo, parte del Ponte Molle, & quello di sant’Angelo, ancorche sia restato immobile, essend’anco dalla furia dell’acqua state menate via tutte le casette, & botteghe, che stavano dirimpetto al Castello, sono cadute diverse case, & molte tuttavia minacciano rovina, & frà li danni notabili, sono stati quelli di molti Librari, & Droghieri, & quello, che è importato è li Magazeni di vini, & d’oli, & molte stanze ove si trovava riposto grandissima quantità di formento per li bisogni publici, & privati della Città, si sono affogati da quaranta prigioni, che erano in Torre di Nona, & nelle campagne si sono affogate molte persone, bestiami grossi, & piccioli”
E’ molto amaro dovere constatare che, al pari di quanto avvenne in occasione dell’inondazione del 1495, a pagare a caro prezzo le conseguenze dell’alluvione furono le persone detenute (40) nel carcere di Tor di Nona perché ciò dimostra l’assenza di piani di emergenza e di evacuazione dei prigionieri nonostante la prevedibilità delle inondazioni e il rischio di allagamento delle carceri che, costruite a ridosso del fiume, finivano frequentemente sotto il livello di piena.
Apprezzabili appaiono invece le operazioni di soccorso prestate, anch’esse descritte dall’autore della Relazione:
“La Santità di Nostro Signore, che dalla Loggie del Palazzo con li occhi pieni di lacrime, & con interno dolore stette à vedere si miserabile rovina, & oltre le continue orationi non risparmiando a spesa alcuna, ordinò subito che si mandassero quante barche si potea in Prati, per salvare tutte quella famiglie, che si trovavano in quelle case, & fece dispensare per le Parochie danari, & pane, non cessando frà tanto il Cardinale Aldobrandino dar buonissimo ordine à tutte le cose necessarie per il vitto, & la salute del popolo, al quale faceva somministrare con barche, si come facevano gli altri Cardinali, & Baroni, dimostrando quella pietà, & liberalità, che si poteva desiderare maggiore”
Non manca nella parte finale della Relazione l’accenno ad un prodigio consistito nel fatto che il corpo di san Bartolomeo, conservata nell’omonima chiesa sita sull’isola Tiberina, venisse risparmiato dalle acque
“E successo un miracolo del corpo di S. Bartolomeo che si ritrova nella Chiesa de’ Frati Zoccolanti nell’isola di Trastevere, il quale è, che havendo il sudetto Fiume allagato essa Chiesa, non potea l’acqua accostarsi al luogo, ove il corpo di detto Santo per alquanti palmi, con tutto che soprabondasse da ogni banda”
A questo punto è lecito chiedersi in quale modo furono sentite nei secoli XV e XVI le frequenti inondazioni del Tevere e i relativi disastri materiali e umani che da esse scaturirono.
Ebbene, da un pregevole studio condotto da Anna Esposito sulle fonti letterarie coeve (15) emerge che l’elemento trascendente assunse un rilievo di assoluta preminenza rispetto a quello distruttivo in modo non molto dissimile da quanto aveva riferito Plinio nella sua Naturalis Historia.
Si riportano per brevità le conclusioni cui è pervenuta la studiosa.
“Per concludere, in tutte le fonti che abbiamo esaminato, sia quelle quattrocentesche sia quelle del primo cinquecento, non vi è mai la ricerca delle cause naturali che hanno determinato la catastrofe.
A differenza di quanto aveva fatto Giovanni Villani nel riflettere sull’alluvione di Firenze del 1333, dove infine la decisa affermazione della provvidenzialità della storia era venuta dopo una serrata analisi sia delle cause materiali che avevano alterato l’assetto dell’Arno, sia delle motivazioni scientifiche determinate con gli strumenti dell’astronomia e dell’astrologia, sia delle indicazioni fornite dalla Sacre Scritture, nelle fonti prese in considerazione manca completamente una tale articolazione del pensiero, e invece viene dato ampio spazio al sentimento del timore, che spinge a riconoscere il potere di una volontà trascendente, di fronte alla quale sembra inutile qualsiasi altra indagine”.
Tali conclusioni coincidono sostanzialmente con quelle a suo tempo tratte da GREGOROVIUS il quale, a proposito dell’inondazione del 1495, afferma che “anche in una delle più terribili inondazioni del Tevere che Roma abbia mai subito, si volle scorgere un segno della collera celeste” (16).
Nei secoli successivi si susseguirono purtroppo molte altre alluvioni e il ponte Rotto continuò ad rimanere un rudere fino a quando, nel 1853, l’ing. Pietro Lanciani ne progettò l’utilizzazione collegando passerelle metalliche, sorrette da funi, alle tre arcate superstiti di destra: come testimoniano le tante fotografie d’archivio, le due sponde furono collegate e il ponte riprese ad essere transitabile (foto 8)
Foto 8 - Il Ponte Rotto diviene nuovamente utilizzabile grazie all’utilizzo di una passerella (foto scattata nel 1875)
Sempre restando al 1853 va ricordato che il 16 gennaio di quell’anno, in concomitanza con il giorno della prima de “Il Trovatore” di G. Verdi al teatro
Apollo, il Tevere straripò costringendo gli spettatori a recarsi al teatro su barche o utilizzando passerelle di fortuna.
Il teatro, costruito a ridosso della riva sinistra del Tevere, fu demolito il 1888 per consentire la realizzazione degli argini e di esso resta menzione nel cippo posto sul lungotevere Tor di Nona vicino al ponte S. Angelo (foto 9).
L’alluvione certamente più impressionante si verificò il 28 dicembre 1870 quando la piena raggiunse 17,22 metri.
Foto 9 - Stele commemorativa del teatro Apollo a lungotevere Tor di Nona
Le vittime e i danni causati dalla piena furono interpretati come infausto presagio per l'Italia a soli due mesi dall’entrata dei bersaglieri a Porta Pia: tanto per restare in tema di profezie e prodigi, anche in questo caso si disse che l’inondazione era la conseguenza della maledizione lanciata da Pio IX contro re Vittorio Emanuele, il quale accorse nella capitale del Regno allagata dove ancora non aveva messo piede constatando il disastro, per poi fare immediato ritorno a Firenze.
Fu deciso di adottare rimedi risolutivi e l’anno successivo il ministro dei Lavori Pubblici Gadda nominò una commissione di ingegneri idraulici con il compito di preparare progetti per scongiurare future inondazioni e nel 1875 fu approvato quello dell'ing. Canevari che prevedeva, tra l’altro, la costruzione di argini mediante muri di contenimento e l'ampliamento del ponte S. Angelo.
I muraglioni, distrussero definitivamente una parte importante di Roma come i Rioni Ponte, Campo Marzio, Tor di Nona nonché i porti di Ripa Grande e di Ripetta che - soprattutto il primo - avevano rappresentato il cuore pulsante del traffico commerciale; ma si dimostrarono funzionanti ed efficaci contenendo le piene e anche quando nel 1937 si verificò un’ulteriore inondazione le acque causarono soltanto modesti allagamenti.
Nel corso della costruzione degli argini, oltre al teatro Apollo, furono demolite con la dinamite anche le due arcate superstiti del ponte Rotto prossime alla riva destra nonché la passerella metallica.
Ciò che attualmente resta è una sola delle tre arcate cinquecentesche superstiti, che poggia ancora sui piloni gettati del II secolo a.C.
E qui finisce la millenaria storia del Ponte Rotto.
(1) ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO, notaio Paulus de Seromanis (tomo 649, vol. 10, cc. 45v–50 r) il cui testo è integralmente riportato nel libro di R. MENDOZA La dogana marittima di Ripa e Ripetta. Gli Statuti del XV secolo, Aracne, 2019, pag. 40 e ss .
(2) P. BERSANI–M. BELATI nel saggio La più antica iscrizione di un’inondazione del Tevere a Roma (www.researchgate.net.publication 319331535) hanno ritenuto che la traccia più antica di un’inondazione del Tevere sia invece rappresentata da una colonna sulla quale è incisa un’iscrizione che reca la data del 26 gennaio 1180: detta colonna fu rinvenuta in piazza della Chiesa Nuova nel 1886 nel corso dei lavori che avrebbero consentito l’apertura di corso Vittorio Emanuele II; secondo la studiosa Di Gioia il luogo di rinvenimento coinciderebbe con quello in cui la stessa era stata posta.
La colonna con l’iscrizione è attualmente custodita nel Museo di Roma di palazzo Braschi.
Tenuto conto dello stato di conservazione e delle abbreviazioni, si è proceduto a ricostruire il testo latino che in italiano suona così
Nel ventesimo anno del pontificato di Alessandro III Papa, nell’indizione XII, nel mese di gennaio, nel giorno ventiseiesimo, fin qui crebbe il fiume nell’anno 1180 dall’incarnazione di nostro Signore.
Sul significato del termine “indizione” cfr. la nota successiva.
(3) Con il termine indizione si designa un ciclo di 15 anni adoperato a partire da Costantino per la datazione di atti e documenti che inizia dal 313 d.C.
(4) L. VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medioevo, ed. it., a cura di A.Mercati, III, Roma 1959, p. 418.
(5) F. GREGOROVIUS, Storia di Roma nel medioevo, V, a cura di Vittoria Calvani e Pia Micchia, Newton Compton editori, Roma 1988, p. 211.
(6) F. GREGOROVIUS, op. cit, VI, p. 337.
(7) ARCHIVIO DI STATO DI ROMA, Camerale I, Fabbriche, b. 1514.
Sull’argomento, cfr. R.MENDOZA, Il peccato e il tributo, Aracne, 2016.
(8) Cfr. Roma nell’età di mezzo descritta da Pasquale ADINOLFI socio corrispondente della Consulta araldica, ecc., tomo I, Internet archive.org/details/romanelletadimezzo01 adin., pag. 27.
V. anche ASR, Camerale I; Mandati camerali 896, p. 29 dove si legge che ad Antonio Ubertino venne spedito un mandato di 350 scudi “…in satisfactione nonnullorum operum … labor in fabricae reparationis Pontis S. tae Mariae …”.
(9) G. VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, GTE Newton 1991, p. 1241.
(10) L. VON PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo,vol. VI, versione italiana di Mons. Prof. Angelo Mercati – Roma D’Esclée & C. Editori, 1922, p. 418, 419.
(11) Il “disegno del ponte Emilio post 1557” è custodito agli Uffizi di Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe: Al riguardo v. P. QUATTRINI e M. FILIPPA, Fonti iconografiche per lo studio dei ponti di Roma: il ponte Emilio e il ponte Fabricio, p. 36, in Arte e Tecnica dei ponti romani in pietra, a cura di C. INGLESE e L. PARIS, University Press, Sapienza Università editrice 2020, collana materiali e documenti 58.
(12) La lapide così recita:
Ex auctoritate Gregorii XIII Pont.Max. SPQR Pontem Senatorium cuius fornices vetustate collapsos et iampridem refectos fluminis impetus denuo deiecerat in pristinam firmitatem ac puchritudinem restutuit anno Iubilei MDLXXV
Per volere di Gregorio XIII P.M. il Comune di Roma nell’anno giubilare del 1575 restituì alla primitiva fortezza e bellezza il ponte Senatorio i cui fornici caduti per l’antichità e in precedenza già restaurati l’impeto del fiume aveva ancora una volta abbattuto
(13) P. SANZIO CICATELLI, Vita del P. Camillo De Lellis (a cura di P. Piero Sannazzaro, Curia Generalizia Roma 1980) cap. 99, p. 173 e ss. e p. 350 nota 424.
(14) Si tratta della “Relatione della spaventevole inondatione fatta da Tevere nella citta di Roma e suoi contorni, alli 23 di Decemb. 1598, in Genoua, appresso Giuseppe Paouoni, 1599”: cfr. R. FRESU, “L’acqua correva con tanto impeto. La rappresentazione linguistica delle esondazioni nel XVI secolo”, in RHESIS, 2017, pp. 10-12, iris.unica.it > handle.
(15) A. ESPOSITO, Mélanges de l’Ecole francaise de Rome, Italie et Méditerranée, MEFRIM 118-1, 2006, p. 12.
L’A. riferisce che in più di una alluvione compresa nel periodo temporale esaminato corsero voci - per lo più ritenute attendibili dagli autori dei relativi resoconti – di avvistamento di serpenti, mostri o draghi che generarono timore nella popolazione e che assai spesso vennero considerati presagi di sventure anche da umanisti di chiara fama quali il modenese Francesco Rococioli, lo svizzero Sebastian Brant (che si richiama a Plinio relativamente agli aspetti di premonizione delle inondazioni), il fiorentino Giuliano Dati (per il quale il diluvio è un segno premonitore divino), lo spagnolo Louis Gomez (che parla di castigo divino), Giovanni Battista Sanga (che insiste sul carattere di presagio soprannaturale dell’inondazione del 1530).
(16) F. GREGOROVIUS, op. cit., p. 210 e ss., secondo cui la mancata analisi della cause naturali dell’inondazione del 1495 si riscontra anche nell’omesso esame delle cause che, verso la fine del XV secolo, provocarono il diffondersi in tutta l’Europa dell’infezione nota come morbo gallico, attribuita “ai nudi selvaggi d’America”, mentre invece “le malattie veneree comparvero in Italia e in altri paesi proprio nel periodo in cui i costumi erano più profondamente corrotti, come espressione fisica di quella degradazione morale”.